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UNA RADIO NELLA NOTTE

XI episodio de “La lista del console”:

«Caro padre, sono contento che tu sia arrivato. Quanto a te, Mussi, c’era veramente bisogno di un medico, su a Nyanza. Credo, purtroppo, che troverai molto da fare». Erano finalmente giunti padre Giorgio Vito, missionario rogazionista, e il dottor Mussi, un grande, grosso e (apparentemente) burbero medico di Varese amico di Eros Borile, che si era reso disponibile a restare per qualche tempo all’orfanotrofio. Si poteva così dare il cambio a don Vito e a padre Eros. Era il 20 maggio. A Nyanza di fatto erano isolati ormai da un mese e mezzo. Tranne me, nessuno era in grado di mettersi in contatto con l’orfanotrofio. Avrei lasciato là i nuovi venuti e sarebbero tornati con me i due religiosi tanto duramente provati. In più, era arrivata dall’Italia una radio piuttosto potente, che avrebbe reso molto più facili le comunicazioni.
Partii ancora una volta. I viaggi ormai si susseguivano ravvicinati. Restavo a casa a Bujumbura una notte, massimo due, e poi mi rimettevo in macchina. Talvolta non potevo portar fuori nessuno in Burundi, ma erano viaggi importanti per tenere sotto controllo le diverse realtà difficili, e organizzare passo dopo passo il tentativo di evacuazione dei bambini, nel quale sia io che Alexis continuavamo a sperare.
Mia moglie non si opponeva a queste missioni, anche se certo non le faceva piacere vedermi partire. Quanto a mio fratello Arturo, che mi ospitava, era perplesso, ma ancora taceva.
La radio era ben nascosta, nel bagagliaio. Alla frontiera non ci furono problemi. Chiedemmo notizie della situazione. Ci dissero che il Fronte si avvicinava. Non si sapeva per quanto avrebbe retto l’esercito. Ormai il rumore sordo della guerra si cominciava a sentire, in lontananza. Cominciammo l’estenuante trafila del passaggio dei posti di blocco: ne contammo ventuno, in 60 km di strada.
Finalmente apparve il cancello dell’orfanotrofio: un colpo di clacson e si aprì. Una moltitudine di bambini silenziosi di tutte le età circondò il fuoristrada. Seppi che erano diventati esattamente 568. Padre Giorgio aprì la portiera e alcuni ragazzini – quelli che vivevano nell’orfanotrofio prima della guerra – lo riconobbero: il missionario era stato il fondatore del centro e lo aveva gestito per molti anni. Un’esplosione di giubilo c’investì: per qualche momento sentii di nuovo la gioia incontenibile dei piccoli africani. Il nostro arrivo aveva ridato fiato alla speranza. Si percepiva che i più grandi (fra i quali c’era qualche giovane adulto e alcune ragazze rifugiate) pensavano che una possibilità di farcela ora c’era: se eravamo arrivati noi forse la situazione del Paese stava lentamente migliorando. Anche i due religiosi, Eros e Vito, riuscirono per qualche momento a sciogliere la tensione in uno stanco sorriso.
Aspettammo la notte per provare a far funzionare la radio. I bambini erano andati a dormire. Non c’era corrente elettrica, così la collegammo alla batteria di una macchina. Tutti gli adulti presenti erano stretti intorno al tavolo. Mussi provò. Una frequenza dopo l’altra si sentivano sfrigolii, rumori e parole. A quell’ora, come d’accordo, in Italia un gruppo di amici di padre Eros doveva mettersi in collegamento su alcune frequenze concordate. «Nyanza, rispondete. Qui Monselice. Rispondete». Proruppe un urlo di gioia, incontrollabile (forse svegliammo pure i bambini). Alcuni s’abbracciarono. Nyanza non era più così isolata, una flebile voce nell’etere la univa a un paese vicino a Padova. Oggi mi sembra poca cosa, ma in quel momento pensai che la salvezza di tutta quella gente fosse un po’ più vicina.

«Non è possibile, porca miseria. Come si può perdere un bambino per la mancanza di una cannula da 50 lire?». Imprecava, Mussi. Di brutto. Gridava e brontolava. Era stato portato all’orfanotrofio un ragazzino di una decina d’anni. Era paralizzato. Le solite bande di assassini avevano massacrato tutta la sua famiglia. Lui non l’avevano ucciso, ma con un atto di insensata ferocia gli avevano torto il collo, ledendogli probabilmente la spina dorsale a livello cervicale. Il piccolo era arrivato denutrito e disidratato. Ma il medico non poteva metterlo sotto flebo, perché erano terminate le cannule di plastica che connettono la boccia all’ago.
In Ruanda, nella primavera del 1994, si moriva anche per questo. Per la mancanza di una cannula da 50 lire, 25 centesimi di euro. E quel povero bambino morì, dopo qualche giorno.
Il mattino dopo dovevo andare a Gitarama, sempre per discutere l’accordo con i ministri. «Aspettatemi», dissi a Eros e Vito. «Passo a prendervi entro le due del pomeriggio».
Ci furono invece complicazioni e ritardi. Arrivai dopo le tre e mezza. Era tardi, troppo tardi. Passare i posti di blocco nel tardo pomeriggio diventava estremamente pericoloso, perché i miliziani erano quasi tutti ubriachi fradici, e bastava trovare un prepotente perché la situazione precipitasse.
Infatti, un momento delicato ci fu, quando ebbi a che fare con uno dei personaggi più surreali che avessi mai incontrato: aveva lo sguardo iniettato di sangue, la voce impastata e le palpebre pesanti. Portava un lungo mantello blu e, sotto, era a torso nudo. Abbastanza alto e ossuto, era certamente il leader della banda che teneva il barrage. Portava addosso un intero campionario di tutte le armi circolanti in Ruanda: infilate alla cintura aveva un paio di bombe a mano, un machete e una pistola; in una mano teneva una lancia, nell’altra un kalashnikov.
Gli mostrai il lasciapassare e il tesserino consolare. Li prese in mano e cominciò a leggerli alla rovescia. Ebbi un gesto di stizza (di cui subito mi pentii): gli strappai i documenti di mano e glieli capovolsi. «Si leggono così», dissi. Tornai subito a sorridere. Lui no, non lo fece mai. Aveva uno sguardo carico d’odio. Era un tipo pericoloso, evitai lunghe discussioni. Il tramonto era prossimo. Misi la mano in tasca e allungai una sostanziosa mancia. La prese senza una parola e si girò dall’altra parte. Andò bene. Potemmo ripartire.

«Colonnello, mi devi una birra», sussurrai. «Forse ti devo la vita», mi rispose sottovoce. Quella birra me la offrì, due anni dopo a Kigali.
Alla frontiera burundese, dove ci trovavamo, il suo viso aveva ripreso colore. Non era passato più di un quarto d’ora dal momento più drammatico. Nteziryayo era un ufficiale da poco in pensione. Nelle settimane precedenti l’avevo incrociato un paio di volte a Butare e Gitarama, mentre brigava per ottenere i permessi di espatrio per sé, la moglie e i tre figli. Chi aveva i soldi per farlo, presto o tardi ci riusciva. La fuga costava 2000-3000 dollari. Dovevi pagare chi ti faceva i permessi, e pagare un militare che ti accompagnasse il più vicino possibile al confine, e pagare infine a ogni barriera, fino alla sospirata «sbarra della salvezza», alla frontiera. Qualcuno di quegli assassini forse si è arricchito, la maggior parte si è bevuta tutti i soldi che prendeva o che rubava.
Quel giorno avevo incontrato per caso l’ex colonnello alla dogana ruandese. Lui stava sbrigando le pratiche, mentre moglie e figli aspettavano nelle due auto, a pochi metri dalla sbarra. Io arrivai con padre Eros e don Vito. Gli facevano un sacco di storie. Così cercai di portare l’attenzione su di me. Distrassi con le domande più varie il funzionario che stava trattando col mio amico. Poi, offrii a tutti qualche soldo per prendersi da bere, e cominciai a chiacchierare con questo e con quel doganiere. Creai una discreta confusione nell’ufficio.
Intanto, tenevo d’occhio la situazione fuori, alle macchine. A un certo punto m’accorsi che si faceva delicata. Un gruppo di interahamwe, che ciondolava sempre in quei paraggi, si era avvicinato alle macchine. Guardavano dentro l’abitacolo, urlavano, chiedevano soldi. I toni cominciavano a trascendere. Uscii e mi avvicinai: «Guardate che stanno andando via», dissi loro. «Se volete un po’ di soldi ve li do io». Tirai fuori una sola banconota da 5000 franchi ruandesi, l’equivalente di una ventina di dollari, perché sapevo che così si sarebbero accapigliati fra loro per contendersela. L’ufficiale in quel momento giunse alla macchina. Le pratiche erano concluse. La sbarra si alzò, gli interahamwe distratti non ci fecero caso. In trenta, vitali secondi, le due auto erano sul ponte, nella «terra di nessuno». Fuori pericolo.
Rientrai da mio fratello sapendo che sarei dovuto subito ripartire: restava poco, pochissimo tempo per far uscire i bambini. La guerra ormai incombeva su Nyanza e Butare.

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