“MA CHI TE LO FA FARE?”

luglio 11th, 2009

Episodio 13 de “La lista del console”

Partimmo per Butare, io e Alexis, attraverso quell’unica lunga strada praticabile che passava per Gikongoro. Appena usciti da Nyanza, ci rendemmo conto che c’eravamo cacciati in un guaio. Un grosso guaio. Eravamo nel bel mezzo della ritirata dei soldati.
Procedevamo a passo d’uomo, attorniati dai militari. Ebbi veramente paura. Mi rendevo conto che ognuno di loro era un potenziale pericolo. Erano sbandati, disperati, stanchi, molti ubriachi, di sicuro disposti a tutto. Certamente pensavano che la nostra macchina poteva portarli rapidamente lontano. E sapevano che, come tutti i bianchi, non viaggiavamo mai senza soldi. Avevo con me un migliaio di dollari, la cifra che più o meno portavo sempre. Per quella gente che ci camminava intorno era una fortuna. Percepivo la minaccia incombente.
Feci salire in macchina il primo ufficiale che vidi sulla strada. Non contava granché, ma era meglio di niente. La divisa di un ufficiale poteva almeno fare da deterrente nei confronti di qualche scalmanato.
Dopo qualche chilometro avemmo il primo contatto con la popolazione. Era l’intera città di Nyanza che scappava: macchine, moto, biciclette stracariche. La gran parte dei fuggitivi procedeva a piedi, col materasso e i sacchetti in testa, con le stoviglie e un po’ di legna per far da mangiare, madri e padri con i figli in spalla, maiali, capre, vitelli, vacche, cani. Ognuno portava via ciò che poteva.
Il tempo passava, lento, sempre viaggiando alla velocità del fiume umano. Impiegammo nove ore per percorrere i 35 km che separano Nyanza da Gikongoro. L’importante era per noi riuscire al più presto a piegare verso sud, in direzione di Butare. L’Fpr, se fosse giunto rapidamente in quella zona, avrebbe certamente proseguito verso ovest. Trovarsi bloccati dalla folla con i combattimenti alle spalle non sarebbe stata la migliore delle situazioni.
Arrivammo in vista di Butare alle cinque e mezzo del pomeriggio, ma la macchina ormai non andava più. Il radiatore sbuffava da tutte le parti, ogni quarto d’ora dovevamo riempirlo d’acqua. Stavamo fondendo il motore, se l’avessi spento non saremmo più ripartiti. Il fuoristrada aveva viaggiato troppo a lungo a passo d’uomo.
Arrivati al vescovado, chiedemmo ospitalità per la notte. Eravamo esausti, per la fatica e la tensione. E molto preoccupati per le sorti dell’orfanotrofio.
Il mattino dopo chiamai subito: «Stiamo bene, il peggio è passato», esordì padre Giorgio. «Nyanza ormai è stata conquistata dall’Fpr». Ma aggiunse che alle quattro del pomeriggio precedente avevano passato un brutto momento. I militari governativi, in fuga, li avevano minacciati, avevano rubato un veicolo e tutti i soldi che erano riusciti a trovare.
I soldati dell’Fpr erano giunti poco dopo. Avevano chiesto a tutti di restare sul posto e di non muoversi. «Ora i problemi sono altri», concluse. «Abbiamo poca acqua. Non c’è energia elettrica e le pompe dei pozzi non funzionano».
Né io né Alexis conoscevamo i nuovi arrivati. Ovviamente non avevamo amicizie fra gli uomini del Fronte patriottico. Non potevamo fare nulla per organizzare un immediato trasferimento dei bambini lontano dalla zona di combattimento. Lui decise di rimanere a Butare, per controllare le condizioni dei diversi centri dei bambini di cui si prendeva cura. Io andai a cercare un’auto per rientrare in Burundi.
Ottenni un passaggio in un minibus che andava alla frontiera. Appena di là, trovai un mio impiegato ad aspettarmi, con una macchina mandata da mio fratello. La famiglia non aveva mie notizie da quattro giorni. Seppi solo più tardi che a Bujumbura era circolata la notizia che proprio sulla strada tra Butare e Nyanza erano stati uccisi dei bianchi. La notizia si rivelò infondata, ma solo dopo il mio rientro.
A casa erano tutti nel panico. Perché Arturo aveva mandato la macchina ad aspettarmi? Perché in Africa queste cose si fanno. Se e quando fossi arrivato al confine, sarei passato di là. Lui lo sapeva. In ogni caso una macchina pronta poteva essermi molto utile.
Arrivai a casa verso le quattro del pomeriggio. Non c’era nessuno. Mariann rientrò un’ora dopo. Mi guardò, per lunghi istanti rimanemmo in silenzio. Poi mi abbracciò e disse: «Sono contenta di vederti». Nient’altro. Ma in quel momento vidi nei suoi occhi che doveva aver sofferto terribilmente. Decisi che dovevo fermarmi. Promisi a me stesso che non sarei più andato oltre confine.
In famiglia siamo in sei: tre fratelli e tre sorelle. Mi presi la ripassata da tutti. Più dolci le sorelle, un po’ più rudi (per usare un eufemismo) i fratelli: Arturo, quello che vive a Bujumbura, mi mandò semplicemente a quel paese, ma non disse di più, forse perché era troppo contento di vedermi; Paolo, il più giovane, invece, mi telefonò dal Belgio. Era incazzato nero, ed era comprensibile. A migliaia di chilometri di distanza aveva vissuto per quattro giorni attaccato al telefono: «Piantala, razza di imbecille. Tua moglie ti aveva ormai dato per morto. Ma chi te lo fa fare?»
Già, chi me l’ha fatto fare? Non me l’ero mai chiesto fino in fondo. E forse non saprei rispondermi neanche adesso.
 

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