TESTIMONIANZE DAL GENOCIDIO/3

aprile 27th, 2009

Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana

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M. Emmanuel, 40 anni, superstite di Murambi, diventato guardiano del luogo

E.M. – L’8 aprile siamo fuggiti verso la parrocchia di Gikongoro. Monsignor Misago collaborava con il prefetto per raggrupparci nei luoghi dove gli Interahamwe avrebbero potuto attaccarci meglio. E infatti, non ci hanno dato tregua durante tutto il genocidio. La guardia presidenziale e l’esercito facevano delle specie di rastrellamenti con i mitra. Dopo passavano i miliziani per finire i feriti a colpi di machete. Era organizzato molto bene. Noi ci difendevamo come potevamo, con dei sassi. Ma ci sono stati molti morti fino a luglio. Se ne contano circa 27.000, Ma credo ce ne siano stati di più.
Y.M. – Ma i Francesi erano arrivati, no?
E.M. – I Francesi? Non impedivano agli Interahamwe di uccidere. Hanno mandato i vecchi Tutsi dalla parte del FPR, per far vedere che aiutavano. Ma i giovani Tutsi continuavano a farsi uccidere. I Francesi hanno addirittura derubato le moto del Progetto agricoltura e le hanno date agli artefici del genocidio per permettere loro di fuggire nello Zaire. E prima di ripartire, hanno seppellito i morti con gli ultimi Interahamwe e hanno piantato dell’erba e appiattito le fosse perché non si vedesse che c’erano dei cadaveri sotterrati. Quando si è vista l’erba crescere, sembrava un campo di calcio. In realtà, i Francesi hanno salvato qualche Tutsi, ma hanno soprattutto permesso agli artefici dei genocidio di fuggire, nel momento in cui per loro la guerra era persa.
Y.M. – Come vivi oggi? Che speranza hai?
E.M. – Vivo nella miseria e nel dolore. Noi superstiti siamo sacrificati alla politica della riconciliazione nazionale. Sono i nostri assassini che ci guadagnano. Quando rientrano, dobbiamo restituire le loro case, mentre loro ci hanno distrutto le nostre e ci hanno uccisi. E a noi, chi ci renderà i nostri beni? E quando testimoniano contro di loro, siamo morti, perché viviamo in mezzo a loro. Mi ribello, ma mi sento totalmente impotente. Non credo alla riconciliazione senza giustizia.

 

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NSABIMANA Enos, 57 anni, coltivatore, in prigione a Kanombe
Y.M. – Voi siete di Zivu? Ma allora, forse conoscete Ngenzi Déo!
N.E. – Lo scultore? Si, lo conoscevo molto bene.
Y.M. – Era mio padre.
N.E. – Vostro padre? Ma allora Musoni è vostro fratello?
Y.M. – Si. È l’unico che mi resta della mia famiglia. Tutti gli altri sono stati assassinati. Persino mio marito e i miei tre figli.
N.E. – Povera Signora! Ma ve lo dico solennemente, non ho ucciso nessuno della vostra famiglia.
Y.M. – Quanti Tutsi avete ucciso?
N.E. – Uno solo.
Y.M. – Chi vi ha dato l’ordine?
N.E. – Nessuno. L’ho fatto da solo.
Y.M. – Cosa sono, quei pezzi di osso che tenete nella mano?
N.E. – Devo spiegarvi. Me ne vado in giro tutto il giorno con i resti dei cranio dell’uomo che ho ucciso perché, molto tempo dopo il genocidio, mentre passavo davanti alla casa della mia vittima, questo cranio mi ha parlato e mi ha domandato di prenderlo con me. Voglio tenere questo cranio finché tutto sarà chiaro in me. Devo espiare. Purtroppo, il cranio non mi parla più. Del resto, gli artefici del genocidio che dividevano la mia cella in prigione lo hanno rotto. Non volevano che andassi in giro con questo cranio, perché dicevano che è una confessione e che non avrei mai dovuto confessare. Dicevano che li facevo vergognare.
Il colloquio si è svolto nell’ufficio del borgomastro di Kanombe non solo per evitare i curiosi ma anche per proteggere il testimone ed evitare che cadesse vittima degli omicidi perpetrati in prigione dagli artefici del genocidio contro coloro che si dichiaravano colpevoli.

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M. Agnès,20 anni, superstite, Kigali
A.M. – All’inizio del genocidio avevo quindici anni, ero in vacanza da mio zio, mia zia e i loro due figli di cui un neonato. Un giorno, un miliziano è arrivato e ha detto a mio zio: “Mi dai tua moglie e vi salvo tutti e cinque.” Mio zio ha rifiutato. Il miliziano ha chiamato allora altri miliziani e, tutti insieme, ci hanno condotti sotto la minaccia dei loro fucili verso la fossa. Ci hanno obbligati a sdraiarci sulla pancia. Alcune dome, assistevano, ridevano di noi, parlando dei nostri vestiti che avrebbero presto potuto dividersi. Mio zio si è buttato nella fossa prima di essere ucciso. Ma mia zia, che si era vestita con un perizoma e dei pantaloni corti molto stretti per scoraggiare i violentatori, è stata uccisa a colpi di machete. Il neonato che portava sulla schiena è caduto con lei nella fossa. Sento ancora le grida di quel bambino. Io, sono corsa verso le donne per chiedere protezione. Hanno urlato e chiamato i miliziani. Uno di loro mi ha ripresa, mi ha picchiata e ha chiesto alla donna più anziana di darmi da mangiare e di sorvegliarmi fino al suo ritorno.

Il giorno dopo, lo stesso miliziano è tornato e mi ha portato in una casa deserta dove mi ha violentata. Poi mi ha riportato dalla vecchia. E il giorno dopo, un altro miliziano, cieco da un occhio, è arrivato. Sono stata portata di nuovo alla casa deserta, sono stata violentata e picchiata per una notte intera. E il giorno dopo, è arrivato un militare. Mi ha portato in un’altra casa, piena di topi e di pulci. Là c’era una donna presa in ostaggio dai miliziani, le hanno preso il suo neonato e l’hanno buttato in una fossa. Il militare è ripartito al fronte. Sono rimasta rinchiusa in questa casa tutta la giornata. Quando è tornato la sera, il mio viso l’ha disgustato perché mi ero coperta le labbra e le narici di fango per far finta di aver vomitato. Ma all’improvviso, si sono sentiti dei colpi di fuoco, lui si è spaventato ed è ripartito, dimenticando di chiudere la porta. È così che ho potuto fuggire. Mi sono imbattuta in una famiglia musulmana che fuggiva l’avanzata del FPR. Alle barriere, facevo finta di essere figlia dell’uomo, nonostante la moglie volesse consegnarmi. All’improvviso, sono stati sorpresi dai soldati del FPR. Io, ero salva.
Y.M. – Perché non mi hai detto questo, quando ti ho incontrata che vagavi nella zona del FPR, nel 1994?
A.M. – Perché non ne avevo il coraggio.

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