EROI DELLA SOLIDARIETA’

giugno 6th, 2009

VIII episodio de “La lista del console”:

“Bene”, pensai. “Ho la scorta, ho l’autorizzazione scritta del colonnello. Passiamo per Gitarama”. Andai a caricare la moglie e i figli del mio dipendente Tchali, alcuni impiegati ruandesi dell’Astaldi e un gruppo di altre persone che non conoscevo. Inoltre, colsi l’occasione per portare con me anche il dottor Legrand, che nell’attesa di essere evacuato s’era trasferito a Gitarama.
François Legrand, chirurgo belga, era stato per un certo periodo uno dei medici dell’ospedale da campo della Croce Rossa Internazionale di Kabgayi. Ma quasi ogni notte, i commando assassini irrompevano nei reparti, e uccidevano alcuni pazienti. Di giorno Legrand li curava, di notte glieli ammazzavano. Ne aveva perduti trenta. Non aveva retto, era caduto in uno stato di prostrazione preoccupante. Bisognava portarlo via dal Ruanda. Nell’attesa di evacuarlo, la Croce Rossa l’aveva trasferito a Gitarama.
In realtà, avevo già organizzato la sua uscita. Essendo belga, non potevo rischiare di far passare Legrand ai posti di blocco col suo passaporto. I massacratori, oltre ai tutsi e agli oppositori, incitavano a dare la caccia ai belgi, perché la propaganda del regime aveva fin dall’inizio accusato il Belgio di essere implicato nell’abbattimento dell’aereo presidenziale. Non era vero, ma evidentemente gli organizzatori del genocidio avevano pianificato che dovesse esserci anche un «nemico bianco». E i belgi, una grossa comunità di 1500 persone, erano il bersaglio perfetto, anche per il loro passato di colonizzatori del Ruanda.
Avevo preparato, giorni prima, un lasciapassare valido un mese su carta intestata del consolato d’Italia a nome di Francesco Grande. Era un documento falso, per cui avevo chiesto all’ambasciata belga di avallare l’operazione. Legrand doveva solo evitare di parlare, per passare per italiano.
Compilai al momento anche la lista della comitiva, come al solito. Senza quella, alle barriere avrebbero ucciso i tutsi che erano a bordo. La colonna era formata da tre macchine, due camionette e la mia Toyota, col cassone scoperto. Eravamo stracarichi: 32 persone in tutto.
A Butare, però, incontrai un mio ex dipendente. L’avevo licenziato mesi addietro perché coinvolto in un traffico poco chiaro. Era tutsi, lui e tutta la famiglia di cinque persone. Mi prese per un braccio, mi guardò negli occhi con la voce rotta dalla paura, e mi disse: «Pierantonio, lo so, non mi sono comportato bene. Non mi merito che ora tu mi dia una mano. Ma almeno aiuta la mia famiglia. Non ti chiedo nulla per me, ma porta fuori loro».
Ovviamente li presi tutti a bordo. Eravamo 37, più stipati che mai.
Mancava solo un timbro, quello del comando militare.
Col prefetto, Sylvain, ormai non c’era alcun problema. Ma con i soldati dovetti discutere parecchio. Dovevo sempre evitare che dicessero un «no». Un ruandese, quando si pronuncia, difficilmente cambia idea. «Ragioniamoci insieme», dicevo loro. «Vediamo se troviamo una soluzione utile a tutti. È il vostro collega di Kigali che mi ha affidato questi bambini da portare a Bujumbura. E poi, sapete, anch’io ho qualche persona che vorrei far uscire. Ma state tranquilli, voi non siete implicati per nulla, perché ho la scorta del colonnello. Nessuno vi può accusare di aver fatto scappare della gente. Basta che mi timbriate la lista», aggiunsi, mettendola sotto il naso al comandante. «Fai un favore a me, e io ne faccio uno a te. Per esempio, quando torno posso portarvi qualcosa che vi serve». Medicine. Di questo avevano bisogno. Alla fine, promisi che al prossimo viaggio avrei portato loro dei farmaci.
Quel timbro era assolutamente necessario, perché sapevo che alla frontiera ogni nome sarebbe passato al vaglio del tipo rompiscatole dell’immigrazione. Se non fosse stato tutto perfettamente regolare, ci avrebbe bloccati.
Tuttavia, non andò tutto liscio. A un barrage c’era un miliziano che non ne voleva sapere. Continuavamo a discutere, ma sembrava irremovibile: «Ho detto che non potete passare», continuava a ripetere. Gli spiegai ancora una volta che ero autorizzato dal colonnello della gendarmeria e dal prefetto. Mi rispose: «Je ne comprends pas le français», non capisco il francese. Capii dove voleva arrivare, dato che tutta la conversazione era avvenuta in francese. Allora misi una mano in tasca e tirai fuori 5000 franchi, e gli dissi: «E questa lingua la comprendi?». Mi strappò i soldi di mano. Dietro a me c’era un bambino. Scoppiò a ridere, e più gli spiegavano che non era proprio il momento di sghignazzare, più lui rideva a squarciagola, in modo irrefrenabile. Era uno dei figli di Tchali.
Quel bambino era rientrato a Kigali, dopo la guerra. Era sveglio, e brillante a scuola. Ma un anno e mezzo più tardi cominciò a soffrire di svenimenti. Succedeva anche tre o quattro volte al giorno. Gli fecero tutti gli esami possibili, ma non risultava nulla di anormale.
I suoi genitori non sapevano più che fare. Finché lo portarono da uno psicologo che lo costrinse a raccontare, uno per uno, gli episodi a cui aveva assistito durante il genocidio. In poche settimane il problema scomparve. Quel ragazzo non riusciva più a vivere normalmente: aveva visto violenze e uccisioni prima di lasciare Kigali. Quella bella risata sguaiata, frenetica, copriva dentro qualcosa di terribile. Che cosa accade dentro di noi quando la nostra mente rifiuta quello che i nostri occhi sono costretti a vedere?
Molto dopo, nel novembre del 1995, andai ad assistere a una rappresentazione realizzata dai bambini. Era una drammatizzazione attraverso la quale raccontavano i fatti che avevano visto e subìto durante il genocidio, come conclusione del lavoro di recupero fatto dall’équipe di psicologi: i bambini ripercorrevano col massimo realismo gli attacchi, la cattura delle persone, gli assassinii. Solo raccontando, disegnando e rappresentando il trauma — dicevano gli esperti — quei bambini si liberavano dai loro incubi. Per me, però, era insopportabile, non riuscii a rimanere fino alla fine.

Mentre facevamo le infinite pratiche di uscita al confine, incontrai per la prima volta Alexis Briquet, una delle persone più in gamba che abbia conosciuto. Io uscivo, lui entrava. «Che ci vai a fare in Ruanda?», domandai. «Lavoro per Terres des Hommes (un’Ong svizzera, ndr). Sappiamo che c’è questo enorme problema dei bambini non accompagnati. Vorrei organizzare centri di raccolta dove metterli al sicuro. E magari, appena possibile, portarli fuori dai confini».
Riuscì a fare cose incredibili, Alexis. Bravissimo, con forti motivazioni ideali e una buona dose di coraggio. Da quel momento tra me e lui nacque un sodalizio. Abbiamo viaggiato spesso insieme, e insieme abbiamo progettato un accordo da sottoporre al Ministero degli Affari sociali, che poi risultò indispensabile per mettere in salvo diversi gruppi di minori. Alexis in poco tempo riuscirà a organizzare centri di raccolta per i bambini a Butare, a Gitarama e in altre città, affittando la sede, assumendo personale per l’assistenza e garantendo in qualche modo l’arrivo regolare di viveri.
Non è stato l’unico «eroe della solidarietà» che ho conosciuto. In quei cento giorni di follia collettiva, mentre tanti facevano a gara a chi ammazzava di più, c’era anche qualcuno che si prodigava per la vita di quella povera gente. Ad esempio, il responsabile generale degli scout ruandesi, Sibomana, un ragazzo che non arrivava a trent’anni. Aveva accettato subito di aiutarci per i bambini.
Un giorno mentre erano a Butare con Alexis per mettere a punto alcune questioni logistiche, si recarono a mangiare al ristorante Ibis. Sibomana è stato fermato da un professore dell’università e da un religioso locale. Con quale autorità lo arrestarono? Per il solo fatto che appartenevano agli interahamwe. L’hanno portato in prefettura, ma Sylvain, il prefetto nostro amico, invece di mandarlo in prigione l’ha messo in una cella all’interno dell’edificio. E ha subito avvisato Alexis che era meglio sorvegliarlo. Lo stesso Briquet e altri scout sono rimasti fuori dalla cella, a turno, per tre giorni. Quando il prefetto ha trovato il modo di lasciarlo andare, lo hanno trasferito immediatamente a Gitarama, e poi all’estero. L’accusa nei suoi confronti era solo quella di collaborare con i bianchi.
Un altro personaggio formidabile è stato padre Viekoslav Kuric, un francescano dei frati minori di Kabgayi. Nonostante vivessimo tutti e due da molti anni in Ruanda, non ci eravamo mai incontrati. Lo conobbi al solito posto di frontiera, tra Ruanda e Burundi, mentre stava battagliando con le autorità burundesi che non volevano far passare un camion pieno di riso che Vieko, come tutti lo chiamavano, stava portando al campo degli sfollati di Kabgayi. Un vero vulcano. Tanto fece che alla fine la vinse, e lo lasciarono entrare anche se le frontiere erano chiuse.
Alla fine della guerra Vieko aveva messo insieme non meno di un centinaio di visti per i suoi innumerevoli passaggi al confine: i camion entravano carichi di viveri e uscivano pieni di gente, nascosta dietro materiali vari, in fondo ai rimorchi dei camion. Gli è sempre andata bene, non l’hanno mai scoperto.
Io non l’ho mai fatto. Lo consideravo troppo pericoloso, per me e per gli eventuali passeggeri. L’unica eccezione è stata proprio con Vieko. Insieme abbiamo fatto uscire 17 preti francescani che si trovavano in grave pericolo. Avevamo un grande autoarticolato, l’abbiamo riempito per due terzi di casse di birra e nell’ultimo terzo, in fondo, abbiamo nascosto i frati, altri due li abbiamo piazzati sotto il camion. Eravamo arrivati alla frontiera e stavamo sbrigando le formalità. Mi accorsi che si erano avvicinati al veicolo un sacco di bambini e che, essendo piccoli, avrebbero potuto scorgere le persone nascoste sotto. «Vieko», gli sussurrai, «che facciamo? C’è il rischio che li vedano». «Le caramelle», mi rispose, «sul cruscotto c’è un sacchetto di caramelle». Presi i dolciumi e ne lanciai alcune manciate, gridando: «Ecco, bambini, ecco a voi. Vediamo chi ne prende di più». I piccoli si gettarono sui dolci. Ne nacque un gran parapiglia, ma soprattutto i loro sguardi si fissarono a terra, anziché sul pianale del camion. Finite le caramelle, erano concluse le formalità. E partimmo.
Qualche anno dopo la fine della guerra, Vieko è stato trovato ammazzato, una notte, a Kigali. Un colpo alla nuca, era seduto al volante della sua automobile. Forse è stato vittima di quella sua stessa generosità che lo aveva spinto, durante il genocidio, a rischiare mille volte la vita.

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