LE ORE PIU’ DRAMMATICHE

giugno 11th, 2009

IX episodio de “La lista del console”:

 

Sunier Claude André, Sunier Kabengera Alphonsine, Sunier Patrick, Sunier Pascal, Sunier Louis-Adrien. Due adulti e tre bambini. Lessi i nomi e guardai il diplomatico svizzero. «Va bene, cancelliere, ci proverò», dissi. «Perché non sono scappati prima?». «Non lo so, signor Costa. Ma la moglie è una tutsi, per loro si sta mettendo male».

Partii per evacuare la famiglia Sunier. Avevo con me un lasciapassare dell’ambasciata svizzera, che in quella situazione non era un granché. La guerra infuriava, più violenta che mai. La capitale non era ancora al collasso, ma poco ci mancava. Il Fronte patriottico guadagnava terreno, anche se non era ancora riuscito a vincere la resistenza dell’esercito governativo.

Kigali è proprio al centro del Paese, e l’Fpr stava tentando una manovra a tenaglia, guadagnava terreno sia a Nord che a Sud. Era la tecnica più usata dal comandante, Paul Kagame: stringeva i nemici dentro una specie di “U”, ma senza mai circondarli. Non li chiudeva in una sacca, lasciava sempre una via di fuga. Forse intendeva fare così pure per conquistare la capitale. Se l’intenzione era questa, ci si doveva presto aspettare un attacco in direzione di Nyanza e Butare. Ma dove esattamente avrebbero lanciato l’offensiva? Quanto tempo avevamo ancora per portare in salvo le centinaia di bambini di Nyanza e di Butare?

D’altra parte, più sentivano aria di sconfitta, più gli interahamwe e i soldati diventavano nervosi e intrattabili. Mi rendevo conto che i rischi aumentavano, di giorno in giorno.

La linea del fronte, d’altro canto, era ancora abbastanza lontana, quell’8 maggio. E quindi andai alla ricerca di questa famiglia Sunier. Forse sarebbe stata un’altra occasione per formare un piccolo convoglio. Alexis Briquet venne con me.

Arrivammo dalla famiglia svizzera, che abitava in una bella casa alla periferia di Butare. Mi resi subito conto che avrei avuto più problemi con lui, Claude, che con i barrage. Il signor Sunier aveva subito cominciato a lamentarsi del fatto che eravamo arrivati tardi. Era pieno di pretese, e considerava tutto dovuto. La moglie, invece, era assai più ragionevole, sveglia e capace di gestire la situazione. Aveva capito subito che era un’occasione unica per salvarsi con i bambini.

C’era poi un’ulteriore complicazione: in casa trovammo non solo la sua famiglia, ma anche tutti i parenti della moglie, una quindicina di persone. Claude voleva portarli con sé. Tentai di spiegargli che non era la stessa cosa muoversi in cinque o in venti persone. Non avevamo i lasciapassare, né le autorizzazioni. L’ambasciata svizzera ci aveva consegnato delle carte d’identità consolari sulle quali appiccicare le foto. Ma erano cinque, per i membri della famiglia. Sunier, intanto, protestava perché non volevamo portare via tutti i bagagli. Sembrava intenzionato a traslocare la casa.

Persi la pazienza in fretta: «Caro Sunier», gli urlai, «solo gli imbecilli rimangono in situazioni simili, è da un mese che dovresti essere uscito e invece sei ancora qui». «Ma l’ambasciata non mi ha detto niente, io attendevo direttive», mi rispose. «Solo gli imbecilli aspettano gli ordini dell’ambasciata». Ero veramente infuriato, anche perché venni a sapere in quell’occasione che cominciavano a circolare i “mercenari del salvataggio”, cioè alcuni personaggi burundesi che in cambio di 10.000 dollari garantivano l’uscita dal Ruanda. Uno di questi sciacalli aveva fatto la proposta anche alla famiglia svizzera.

Trovammo il modo di mettere al sicuro i familiari della moglie: erano quasi tutti minorenni. Ai due adulti che erano con loro demmo indicazioni per passare il confine attraverso la foresta. Bambini e ragazzi li portammo al centro della Croce Rossa di Butare, lo stesso dov’erano raccolti i bambini recuperati da Alexis.

Il centro rischiava il collasso. I minori erano ormai 700, un numero veramente ingestibile. E continuavano ad affluire. Quanto alla sicurezza, sapevamo benissimo che era piuttosto labile. Chi assicurava la protezione, ossia i soldati, erano gli stessi che andavano in giro a fare i massacri.

 Tornato a Bujumbura, mi fermai giusto il tempo di riposarmi un po’ dalle fatiche. Continuavo a dormire e a mangiare poco. E mi accorgevo che la cintola dei pantaloni cominciava a essere larga.

Purtroppo, da Nyanza arrivavano brutte notizie: il fronte si avvicinava e padre Eros Borile non stava per niente bene.

Decisi di ripartire, il 12 maggio, con la macchina carica di viveri e medicinali. Fortunatamente, esibendo il tesserino diplomatico, nessuno – almeno fino a quel momento – aveva osato farmi aprire il bagagliaio e perquisire il carico.

A pochi metri dal cancello della missione rogazionista c’era l’ultimo posto di blocco. Ho un ricordo nitido del capo dei miliziani: mi aveva colpito il fatto che fosse un vecchio, magro e abbastanza alto. Avrà avuto non più di sessant’anni, che però spesso in Ruanda ne valgono ottanta. Faceva fatica ad alzarsi dalla sedia, si muoveva lentamente. Quando arrivavo, mi riconosceva subito e mi veniva incontro: «Ah, sei ancora tu», diceva. Era vestito sempre allo stesso modo, pantaloni cachi e pullover rosso. Non era armato, le armi le avevano gli altri intorno a lui. Sembrava assolutamente convinto di compiere un’opera meritoria, cercando di “beccare” qualche tutsi in fuga: «Sai», diceva, «dobbiamo stare attenti. I tutsi sono dappertutto». Me lo ripeteva ogni volta.

Padre Eros stava proprio male. «Ho sempre bruciori allo stomaco, e vomito in continuazione», mi spiegò. «Non capisco, forse è la tensione». Eros, che già era esile di costituzione, era divenuto ancor più magro, pallidissimo. Sembrava non reggersi in piedi.

Ripresi la strada del ritorno col pensiero fisso a Nyanza. Non vedevo vie d’uscita. Anche avessi portato il missionario a Butare, non c’era nessuno che potesse curarlo. La soluzione si materializzò lungo la strada: incrociai un camion della Croce Rossa Internazionale. Segnalai il problema al responsabile, un giovane franco-libanese. Lui entrò subito in contatto radio con la loro base di Kabgayi. Dall’ospedale da campo che avevano in città partì subito un medico per Nyanza.

In poche ore individuò il problema: padre Eros aveva una stranissima malaria, che si era manifestata con sintomi atipici. Lo misero sotto flebo per quattro giorni, e con un’altra settimana d’ospedale lo riportarono a Nyanza in discrete condizioni.

Ovviamente era molto debole. S’imponevano decisioni rapide. In quelle condizioni padre Eros e don Vito non avrebbero retto a lungo nel gestire i 500 e più bambini dell’orfanotrofio.

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