“DIO DOPO IL RWANDA” DI JACOPO FO

aprile 7th, 2009

Mi ricordo di una notte passata in preda al terrore di fronte alla televisione (Rai 3) che trasmetteva un lunghissimo collage di filmati sullo sterminio del Rwanda.
Parlo di terrore perché mi immedesimai in quel mare di profughi, di affamati, di feriti, di morti.E mi chiesi, e me lo chiedo ancora, perché il mondo non reagì, perché la maggioranza degli umani furono indifferenti a quell’immane sofferenza.
  

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Rispondere a questa domanda credo sia essenziale per la qualità della vita di ognuno di noi.
Anni dopo quella notte passata di fronte al teleschermo lessi un libro impressionante: “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”, dove Hans Jonas, l’autore diceva: “La domanda che gli stermini ci pongono è: come è possibile che Dio, la provvidenza, l’energia cosmica o qualunque altra cosa governi il mondo, non sia intervenuta a fermare i malvagi o quantomeno a punirli?
Neppure i miscredenti totali riescono a fuggire da questo interrogativo”.
La nostra mente si è evoluta attraverso lo stretto rapporto con la legge di causa e effetto. Anche il peggiore degli atei è spontaneamente portato a vedere un rapporto di concatenazione in tutti i fatti della vita.
Quando ci succede qualche cosa di negativo non possiamo fare a meno di chiederci: dove ho sbagliato?
Quando qualche cosa di tragico accade a qualcun altro, abbiamo la tendenza a spiegarci questo fatto come un evento che ha legami con il modo di comportarsi della vittima.
Quando riusciamo a trovare una causa plausibile che collega il disastro con una colpa o un’incapacità della vittima ci sentiamo tranquillizzati.
Pensiamo: “Se sto attento a me non succederà.”
Sarebbe importante per ognuno di noi, credenti e non credenti, accettare invece l’idea spaventosa che non ci sia assolutamente nessun modo di sfuggire ad una spietata casuale falce dell’universo, che periodicamente si abbatte su di noi senza che si sia fatto nulla per meritarlo o provocarlo.
Vedo già qualcuno sobbalzare. Qualcuno che pensa la carneficina rwandese abbia precise origini. E’ un’idea che condivido assolutamente e che non è per nulla inerente con il difficile pensiero che sto tentando di formulare.
Il conflitto etnico rwandese è stato totalmente provocato dal colonialismo spietato che il popolo del Rwanda ha subito. Sono stati i colonialisti a creare l’identità etnica di gruppi che vivevano fianco a fianco pacificamente da secoli e che avevano quasi perso il senso della loro discendenza, un po’ come sta succedendo in Italia dove napoletani e calabresi riconoscono una loro diversità ma sono ben lontani da poter dar vita a una guerra etnica.
Fedeli alla strategia del dividi et impera i colonialisti imposero che sui documenti di identità fosse scritta l’appartenenza etnica e, a partire da questa impostazione, tentarono in ogni modo di etnicizzare la società rwandese.
E una volta che la società fu separata in gruppi di RAZZA diversa si iniziò a usare questi gruppi come parco buoi delle grandi manovre economiche e politiche.
Quindi vi sono dei colpevoli nella storia del Rwanda. Il Rwanda non è un incidente o un terremoto, è il prezzo pagato dall’Africa per l’arricchire l’Europa e gli Stati Uniti.
Il massacro è stato un grande affare per i bianchi e per le oligarchie nere dei signori della guerra. E su questo non ci piove.
Ma la domanda che mi pongo va oltre questo. Io mi metto nei panni di questo immenso numero di esseri umani sterminati a colpi di machete, mi metto nei panni di centinaia di migliaia di bambini trucidati. E chiedo: che colpa avevano? Che cosa si può imputare alla loro azione di quanto li ha maciullati?
La risposta è: nulla. Nessuna azione, nessun pensiero lega queste persone al loro destino. Non vi è rapporto tra quanto hanno individualmente compiuto e quanto è accaduto loro.
Questa è una verità terribile da accettare.
Perché mi dice che anch’io, in qualunque momento, posso essere travolto, senza che la mia moralità e abilità mi possano offrire un riparo.
Orribile.
Molte persone sono disposte a qualunque cosa pur di non accettare questo fatto.
C’è chi crede in un Dio Giusto che premia i buoni e castiga i cattivi.
Ma si tratta di fedeli di basso livello che non hanno letto la Bibbia né il Corano.
In nessun antico testo sacro c’è scritto che chi cammina nella via del Signore e nel rispetto delle sue leggi viene salvato in questo mondo. Al massimo, comportandosi bene, si ottiene un premio in una vita successiva. Si dice, anzi, il contrario: a volte Dio chiede ai più fedeli di affrontare dolori inenarrabili per saggiarne la fede.
Ma la maggior parte dei credenti non crede a questo. Prega un Dio che punirà in questo mondo i malvagi e darà la grazia ai giusti. Credere a questo è più comodo.
Ci sono altri che credono che non ci sia nessun Dio e che il mondo sia una giungla, ma si avvinghiano all’idea di essere i più abili, i più intelligenti o i più malvagi e che questo li proteggerà.
Ora, è vero che su scala statistica una persona più intelligente e più forte ha più probabilità di sopravvivere a un disastro. Ma abbiamo anche le prove che migliaia di persone estremamente abili e capaci siano morte, miseramente travolte da eventi colossali, o più semplicemente dalla pistola di un cretino o dal machete di uno psicotico.
E’ chiaro che, comunque, cerco di compiere il minor numero possibile di azioni idiote, in quanto questa linea di condotta offre indiscutibili vantaggi.
Ma è anche importante che io capisca che sono comunque costantemente esposto a rischi immani, che non posso prevedere né fronteggiare in alcun modo.
E questo è particolarmente importante anche perché mi offre la possibilità di concepire in modo completamente diverso la vita.
E’ un pensiero rivoluzionario.
Innanzi tutto mi fa comprendere il valore e il significato dell’umiltà. Perché capisco che il mio potere è risibile.
Quindi mi fa assaporare il gusto della pietà verso gli altri. Mi sento emotivamente unito al dolore degli altri, ai limiti degli altri, divento solidale perché mi sento simile agli altri per i miei limiti e condivido con il resto dell’umanità una condizione per molti versi deprecabile e ingiusta. Comprendo i miei limiti e sono più disposto a tollerare i limiti e la diversità degli altri.
Ma oltretutto la coscienza della relativa casualità del male dà un senso diverso a ogni istante che vivo senza disastri.
Ogni conversazione, ogni gioco, ogni contatto, ogni esperienza assume un valore diverso se penso: “Cazzo, che culo che ho! Potevo essere schiacciato da una lavatrice caduta dal 45° piano e invece sono qui in un fantastico ingorgo a guardare i miei vicini d’auto che si mettono le dita nel naso e scoreggiano.”
E questo pensiero, questa accettazione della propria totale fragilità e impotenza, genera costantemente lo spirito del comico. Le presunzioni umane, la sete di denaro e di potere, le ideologie autoritarie e i fanatismi religiosi, la crudeltà, derivano da quell’unico pensiero: che sia possibile possedere uno strumento che ci metta al sicuro dal dolore. Istintivamente l’umano cerca di anestetizzare la paura, illudere la logica, convincersi di possedere uno strumento di salvezza.
E questo è drammatico, ma è anche la struttura di base della comicità: il grande generale coperto di medaglie che inciampa e cade fa ridere.
Ma il dono del comico non è il solo vantaggio che si trae contemplando l’idea di non avere nessuna bacchetta magica.
Quando vieni colpito dall’entropia, dai demoni del caso, soffri il doppio se pensi che ci deve essere una tua colpa alla radice del tuo dolore.
Tutto il tuo sistema di valori ti esplode in mano e rassegnarsi è più difficile.
Perché quando il male ti travolge RASSEGNARSI è l’unica medicina. Poteva essere in un altro modo, invece è così, vediamo se si riesce comunque a vivere ancora qualche cosa di buono.
Ma rassegnarsi al proprio destino non vuole dire non continuare a sperare e ad agire.
Ce lo insegnano le persone che hanno perso parte del corpo e hanno accettato con rassegnazione la terribile menomazione che hanno patito e che ritrovano il senso della loro vita gareggiando nella corsa o nel tennis.
La rassegnazione può essere un arrendersi sterile oppure la capacità di usare ciò che le avversità ci lasciano come possibile orizzonte.
Se veramente si coglie la drammaticità dell’esperienza di vivere e l’assenza di armature lucenti in grado di proteggerci da tutto può nascere dentro di noi un desiderio illimitato di darci da fare, di agire, di costruire, di vivere appieno l’avventura della vita e le sue sensazioni.
Pensare alla propria sostanziale impotenza dà una sensazione di smarrimento, di vertigine alla quale possiamo reagire soltanto cercando di sfruttare al massimo tutte le possibilità di incidere sulla realtà veramente.
Un punto di vista strano e difficile da accettare ci trasforma in curiosi osservatori della nostra vita, comunque stupiti della grandiosità dell’occasione che abbiamo e smaniosi di non lasciarcela sfuggire.
Allora COGLI L’ATTIMO non è più soltanto la citazione di un film, diventa un imperativo esistenziale assoluto.
La forza motrice della nostra esistenza che ci libera della paura di fallire.
Nessun costo che possiamo sostenere per realizzare i nostri sogni è paragonabile al costo che il caso ci può infliggere in qualunque momento.
Vedere che nonostante la nostra miserevole condizione, siamo capaci di gioire di quel che abbiamo, di costruire un mondo migliore, di inventarci la forza di ridere, di fare progetti, di amare, di sfidare la sorte è l’unica medicina per l’angoscia di vivere.
Io ho affrontato i demoni della mia disperazione usando la spada fiammeggiante dell’azione. Agire non mi protegge da nulla, ma mi dà la soddisfazione di averci provato, di aver sognato e ogni tanto quella di aver vinto. Io, essere insignificante, piccolo tappo di bottiglia nell’oceano tempestoso, sono riuscito a ritrarre la grazia del mattino con un pennello sporco di colore e un foglio di carta.
L’arte. L’arte di creare, di comunicare, di vivere.
L’arte di studiare e sperimentare per far sì che esista un mondo migliore dove lo sterminio del Rwanda non possa più esistere.
Io mi impegnerò e cercherò di comunicare questo senso della vita.
Dio non ha impedito il Rwanda. Noi possiamo riuscirci.
La vita al di fuori di questo immenso tentativo non ha senso.
Non è una questione di generosità. E’ l’unico presidio possibile contro la paura.
Se facciamo finta di non vedere l’orrore della guerra saremo completamente annichiliti se l’orrore colpirà noi in qualche modo.
Se accettiamo che l’orrore esiste e ci impegniamo per limitarlo questo sarà per noi di enorme sollievo.
Pochi si sono salvati dai campi di sterminio nazisti.
Di questi, pochissimi erano ancora in grado di ragionare dopo quell’esperienza annichilente.
Erano persone che in quell’inferno si erano inventate un modo per sperare.
E per uscirci si erano dedicate a FARE. Disegnare su frammenti di carta, inventarsi un romanzo e impararlo a memoria perché impossibilitati a scriverlo… Mandela nei suoi 30 anni di carcere duro scriveva ogni giorno una lettera di protesta alla direzione lamentando piccole inadempienze al regolamento carcerario da parte delle guardie o insistendo per ottenere microscopici miglioramenti come il permesso per tenere corsi di economia agli altri detenuti, durante l’ora d’aria.
Assurdità che non miglioravano in nessun modo la misura della sofferenza reale, ma creavano speranza e il piacere dell’azione, del pensiero, dell’invenzione.
La cosa peggiore che ti possa succedere è essere colpito e restare lì a soffrire e oltretutto annoiarti.
Se agisci continui a soffrire, ma almeno non ti annoi.
Non ci può essere niente di buono nei massacri del Rwanda. E’ solo orrore.
Ma in questo mondo strano e incomprensibile succede che persino l’orrore possa dare un piccolo frutto. Un frutto che va a sommarsi a quelli prodotti da tutte le sofferenze inflitte all’umanità da esseri umani impazziti per la paura che hanno cercato di lenire il loro dolore ottenebrandosi con la droga della cupidigia e del potere, fossero essi carnefici con una mannaia in mano o banchieri distinti e profumati seduti nella sala del consiglio di amministrazione di una Multinazionale del Dolore.
Sono convinto che lentamente la montagna dello strazio umano stia insegnando qualche cosa di buono all’umanità: il lento aumentare dell’insopportabilità dell’ingiustizia e del sopruso. Abbiamo abbastanza guai di base da non voler più sopportare questa immane aggiunta di dolore causata dalla malvagità di pochi squilibrati che uccidono per denaro.
Dobbiamo fermarli per sempre.
Ogni piccolo risultato su questa via aumenta la speranza nel mondo.
 

 Jacopo Fo

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