BUJUMBURA – KIGALI E RITORNO

maggio 17th, 2009

V episodio de “La lista del console”:

 

Che ne era stato degli italiani che vivevano nei dintorni di Butare? Da quella zona, nel Sud del Ruanda, non erano giunte molte notizie. Trasferitomi a Bujumbura, la capitale del Burundi, non mi sarebbe stato difficile risalire la strada che s’inerpica tra i monti e penetra nella parte meridionale del Ruanda. È un viaggio abbastanza agevole, di tre o quattro ore, su strada asfaltata, nella regione più bella e impervia delle montagne.

A Buja, come tutti chiamano la capitale burundese, abitava mio fratello Arturo che mi aveva offerto ospitalità. Mariann, Matteo e io ci eravamo spostati da lui, Olivier e Caroline erano tornati in Belgio.

Butare, mi dissero, era ancora calma. Il motivo lo capii in seguito. Anche per questo, molte persone fuggite da Kigali si erano dirette da quella parte.

Riguardo ai miei compiti di console, a quel punto sarei potuto starmene a prendere il sole sul lago Tanganyika. Infatti, gli altri colleghi e soprattutto gli ambasciatori, che certamente avevano doveri maggiori dei miei, erano tutti rientrati nei rispettivi Paesi. Alcuni avevano lasciato subito il Ruanda, nei primissimi giorni. Altri erano rimasti solo il tempo necessario a far evacuare con gli aerei o gli elicotteri i propri connazionali. Insomma avrei potuto considerare concluso il mio lavoro.

D’altro canto, come imprenditore, a differenza dei diplomatici, in Ruanda stavo lasciando tutto ciò che avevo realizzato. Avevo quattro ditte a Kigali che stavano andando in malora. Era un valore di qualche milione di dollari. Dovevo salvare il salvabile. È stata questa la prima molla che mi ha spinto ad andare avanti? O è stato un tarlo più profondo? E i bambini? Quanto hanno pesato loro nel mio crescente coinvolgimento? Non ero mai riuscito ad avere notizie dell’orfanotrofio dei rogazionisti di Nyanza. Sapevo che dovevano esserci due padri italiani e circa 150 bambini, di entrambe le etnie. Erano al sicuro? E fino a quando li avrebbero rispettati? Mi arrivavano notizie indirette che altri bambini andavano dai missionari in cerca di protezione. Ma quanti? Dall’inizio della guerra, in soli quindici giorni, sapevo che erano diventati più di 200. I rogazionisti avevano riserve tali da sfamarli tutti?

 «Maggiore, sto andando a Butare. Volevo che ne fosse informato». «Va bene, Costa. Non incontrerà particolari problemi. La situazione per ora è tranquilla». Mi ero fermato al comando burundese di Kayanza, l’ultima cittadina prima della frontiera. L’ufficiale era una brava persona. «La gente», aggiunse, «passa senza difficoltà, i commercianti stanno iniziando ad andare avanti e indietro dal Burundi per approvvigionarsi».

Al confine ruandese c’era un doganiere un po’ rognoso. Era puntiglioso e faceva troppe domande. Mentre stavamo discutendo e sbrigando le formalità, arrivò un commerciante di Butare che conoscevo. Mi raccontò che andava a Bujumbura a comprare qualche rifornimento, e mi offrì la scorta del militare che lo aveva accompagnato fino a quel momento. Questo mi convinse definitivamente a proseguire: avevo qualcuno che poteva aiutarmi nei passaggi alle barriere.

La strada – una quarantina di chilometri – era deserta, la città pure. Non c’erano soldati in circolazione. Andai alla prefettura, poi al comando militare: stranamente anche là non c’era nessuno. In seguito venni a sapere che tutti, sia le autorità civili che militari, erano riuniti alla sede del Mrnd, il partito del defunto presidente Habyarimana. Il suo successore ad interim, Théodore Sindikubwabo, che avevano messo a guidare una sorta di governo di transizione per gestire l’emergenza, stava pronunciando un discorso, che in seguito divenne tristemente famoso. Stava incitando «a finire il lavoro cominciato». «I ruandesi», spiegava, «sono degli agricoltori, quando cominciano a lavorare la terra arrivano fino alla fine del campo e tagliano tutto quello che devono tagliare».

Raggiunsi una missione italiana dei missionari rogazionisti. Vi trovai padre Tiziano Pegoraro. Gli spiegai di far girare la voce che sarei tornato due giorni dopo. Chi voleva uscire dal Paese doveva farsi trovare là.

Sulla via del ritorno, mi resi conto, appena uscito dalla città, che era cambiato qualcosa: ai barrage non c’erano civili ma militari, e facevano molte storie per farmi passare. Erano duri e incattiviti. Capii che quel meeting aveva cambiato radicalmente l’atteggiamento dell’esercito. Girai l’auto e tornai al comando: il colonnello mi concesse un militare di scorta.

La situazione era mutata: il clima era plumbeo, e durante il viaggio sentii diverse sparatorie sulle colline circostanti.

Appena passata la sbarra del confine ruandese, restai di sasso: c’era una scia di macchie di sangue, e delle orme che le avevano calpestate. Le macchie proseguivano fino oltre il ponte che fa da «terra di nessuno» fra Ruanda e Burundi. Quelle chiazze raccontavano una storia chiarissima, accaduta al massimo un paio d’ore prima del mio passaggio: un grosso gruppo di tutsi aveva cercato di forzare la frontiera. Si erano fatti sparare addosso per passare di là. Potevano essere 300, forse 400 persone. Con la forza del numero una buona parte era riuscita a passare il confine. Rimasi a fissare a lungo quelle macchie, mentre piano piano transitavo oltre il ponte.

Era il 19 aprile. Di ritorno da Butare passai alla base di Médecins sans frontières e a quella della Croce Rossa Internazionale. Entrambe le organizzazioni avevano posto i loro quartieri generali a Bujumbura. Riferii della situazione dei loro uomini presenti a Butare. Mi guardarono stupefatti quando dissi che venivo da Butare, consideravano una pazzia andarci. Ma il fatto che fossi potuto tornare senza grossi problemi fece capire anche a loro che era possibile farlo. Insomma, il buon esito di una missione spingeva gli altri a rischiare un po’ di più.

Così, due giorni dopo partimmo insieme, io e i ragazzi di Médecins sans frontières. Loro andarono all’ospedale di Butare, e scoprirono che proprio quella notte una pattuglia di militari era penetrata nell’ospedale e aveva ammazzato alcuni pazienti. Ormai anche nel Sud stava cominciando la mattanza. Dovetti aspettare qualche giorno prima di tentare un’altra spedizione in zona: arrivavano notizie che i massacri erano in corso, ed era divenuto assai pericoloso avventurarsi nella zona.

Decisi che avrei operato così. Mi sarei vestito sempre allo stesso modo per essere riconoscibile: pantaloni scuri, camicia azzurra, giacca grigia. Distribuite nelle tasche – e sempre nello stesso posto – avrei messo banconote da 5000 franchi ruandesi (circa 20 euro), da 1000, da 500 e, infine, da 100 franchi, per essere sempre pronto a estrarre la cifra giusta, senza dover contare i soldi: la mancia dev’essere data nella misura giusta, se dai troppo ti ammazzano per derubarti, se dai troppo poco non passi. Nella borsa avrei avuto costantemente con me alcuni fogli con la carta intestata del consolato d’Italia, e sul fuoristrada ci sarebbero state le immancabili bandiere italiane. Quanto alla durata delle incursioni oltre confine, avrei evitato il più possibile di dormire in Ruanda e di viaggiare col buio. 

C’erano lunghe file: da un lato una quarantina di europei, dall’altra decine di ruandesi e altri africani; gli uni e gli altri cercavano di ottenere il permesso di lasciare il Paese. Alla prefettura di Butare regnava la confusione. Ormai tutti erano terrorizzati dalla piega che prendevano gli avvenimenti. Mi misi in coda, pazientemente, per essere ricevuto dal prefetto.

A un certo punto s’aprì la porta, il prefetto mi fece segno di entrare e richiuse la porta. Non mi conosceva. Spiegai che ero il console italiano e che volevo evacuare i miei connazionali. D’improvviso mi si avvicinò, mi abbracciò e si mise a piangere: «Non mi piace quello che sono costretto a fare», continuava a ripetere. Era un giovane, Sylvain Nsabimana, rientrato da soli due anni dalla Danimarca, dov’era andato a studiare.

Il suo predecessore era un tutsi, si chiamava Habyarimana come il presidente. L’avevano eliminato – lui e tutta la sua famiglia – il giorno stesso del discorso del presidente ad interim Sindikubwabo che aveva cambiato i destini della città. E quel ragazzo si era trovato improvvisamente trasferito dal suo impiego nell’azienda nazionale del caffè a capo della prefettura. Capii perché Butare era rimasta tanto a lungo tranquilla: era merito di quel prefetto tutsi. Finché aveva potuto, aveva calmato gli animi ed evitato i massacri.

Col nuovo prefetto non ebbi mai alcun problema. Mi agevolò in tutti i modi. Ogni volta che andavo da lui con una lista di nomi di persone da portare fuori dal Ruanda, lui autorizzava senza fiatare. Oltre alla sua firma, però, serviva anche quella del comando militare. Ed era una questione più complicata, bisognava sempre promettere qualcosa in cambio.

 Compilammo la lista. La prima. Ci misi tutti gli europei che aspettavano il «via libera». Ma ci aggiunsi anche alcuni zairesi, malgasci, tanzaniani e alcuni ruandesi. Decidemmo di organizzare due colonne diverse di automobili, e di partire per Bujumbura a due ore di distanza gli uni dagli altri, per farci notare meno.

In quel momento venni a sapere due cose: la prima, che don Vito Misuraca, il missionario responsabile dell’orfanotrofio di Kigali di cui non avevo più notizie, era riuscito a uscire dalla città e fra mille difficoltà aveva raggiunto l’orfanotrofio di Nyanza; la seconda, che sia lui che il rogazionista responsabile di Nyanza, padre Eros Borile, avevano deciso di non venire con noi in Burundi. «Inutile che li chiami», mi spiegò padre Tiziano Pegoraro, «non rispondono al telefono. Lo lasciano squillare a vuoto per far credere che all’orfanotrofio non c’è più nessuno». «Stanno bene?», domandai. «Per ora sì. Non hanno avuto alcun problema».

Ma quanto poteva durare? La situazione, nella regione, stava precipitando. Il governo ruandese, proprio perché la zona era sempre rimasta tranquilla, aveva mandato a Butare diverse squadre di militari della Guardia presidenziale, i fedelissimi del regime. Di giorno in giorno, dove arrivavano le pattuglie di soldati iniziavano i massacri. Il meccanismo era sempre lo stesso: coinvolgevano la popolazione in modo che nessuno potesse più proclamarsi innocente. O partecipavi al genocidio, o eri connivente con i tutsi, e quindi da eliminare.

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