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IL GENOCIDIO TRA DISTORSIONI GIORNALISTICHE E RAPPRESENTAZIONI RWANDESI: IL RUOLO DEI MEDIA ITALIANI

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di Elisa Finocchiaro

“Conflitto intertribale”, “Consueta guerra interetnica”, “tribù nutrite da un antico odio”, “guerre tribali”, “il seme dell’orrendo odio atavico”. Così avevo letto sui giornali italiani usciti in Italia durante il genocidio.
Qualche tempo dopo mi ritrovai in Rwanda ripetendo quelle parole a John, un ex combattente del Fronte patriottico rwandese, il quale mi rispose così:
“Ho visto pezzi di persone in bocca ai cani, e adesso cerco di guardare avanti, ma quando sento chiamare conflitto intertribale quello che successe qui nel ’94, per di più da parte di paesi che inviarono qui tonnellate di armi e machete…Ecco, allora sento che potrei impazzire…”

Il discorso mediatico, nel nostro caso quello dei quotidiani « Repubblica » e « Corriere della sera », ha fornito una interpretazione della vicenda ruandese in termini di conflitto etnico e tribale, ricorrente ed inevitabile, inserito nella cornice di un continente selvaggiamente violento.
L’Africa dei media è popolata da società dai costumi primitivi, da una umanità dolente che sembra ritrovare la sua ragion d’essere nell’esercizio di una violenza atavica, irrazionale e ferina.
L’assenza di approfondimento sulle ragioni che hanno preparato e motivato il genocidio ha contribuito a restituire una incomprensibilità al pubblico di lettori, o una comprensione basata sul tribalismo, sul primitivismo della società africana, in modo che l’opinione pubblica non si dovesse confrontare con le diverse responsabilità del genocidio.

Dall’ analisi che ho svolto emerge come “La Repubblica” abbia praticamente evitato di dare una spiegazione storica e politica al genocidio, limitandosi ad utilizzare sostanzialmente le categorie del tribalismo e dell’etnicità, arrivando persino a mettere nero su bianco delle vere e proprie bugie storiche.

Nel Corriere, ancor meno che ne “La Repubblica”, non venne mai tirata in ballo una spiegazione politica per i fatti del Rwanda, né venne mai fatto accenno ai processi coloniali.
Il lessico utilizzato rimanda ad un’idea di inumanità, si scrive di “orde barbariche assetate di sangue”, si commenta, in prima pagina il ventitre maggio, che “il conflitto che ha scatenato questi orrori non è politico né ideologico né religioso, ma razziale. Le sue radici sono nel dominio secolare dell’aristocrazia dei tutsi, signori delle mandrie…”
Nella lettura di tutti gli articoli da aprile ad agosto del 1994 riguardo al Rwanda, emerge un’analisi a dir poco lacunosa e soprattutto l’esistenza di alcuni grandi categorie categorie, clichè dietro ai quali si racconta solitamente l’Africa.
La prima categoria è l’assimilazione del paradigma anatomico-razzista, utilizzato storicamente dai Belgi, da parte dei giornalisti. La seconda categoria è quella di una storia (inventata) di antichi odi, senza precisi riferimenti temporali e immutata nel tempo. La terza infine è la categoria della tribù, ampiamente utilizzata dai quotidiani per spiegare le vicende.

Il paradigma anatomico, che ha sicuramente giocato un tristissimo ruolo nel genocidio, viene preso per buono come se effettivamente esistesse una valida differenza etnica rintracciabile in base a queste caratteristiche somatiche. Il fatto che gli Interhamwe abbiano svolto i loro assassinii in base a tale erronea distinzione non vuol dire che da giornalisti non si abbia il dovere di dare a tale distinzione la giusta spiegazione storica. Possiamo il ventitre maggio persino leggere di “cancellazione della minoranza di origine nilotica(…)”, chiaro riferimento alla teoria camitica, la quale ascrive ai Tutsi un’origine mai provata scientificamente ma sicuramente strumentalizzata dal colonialismo.

Il paradigma anatomico è conseguenza di teorie razziste, e i giornalisti non avrebbero dovuto prenderlo per buono. Nonostante le rappresentazioni caricaturali dei membri di ciascun gruppo – gli hutu bassi e tozzi, i tutsi alti e slanciati- è dimostrato come sia impossibile determinare scientificamente l’appartenenza “etnica” di un individuo sulla base delle semplici caratteristiche fisiche data l’ antichità e la frequenza degli intermatrimoni e la presenza di una sola lingua cultura e religione.

“La Repubblica” e il “Corriere della sera” invece mettono nero su bianco una grande bugia storica: “Tra gli Hutu e i Tutsi un conflitto secolare”. Il conflitto “inter-etnico”,“ha origini antiche”, infatti “le due etnie non hanno mai smesso di combattersi”. Secondo la “Repubblica” del dieci aprile “Gli Hutu, agricoltori che rappresentano il novanta per cento della popolazione, arrivarono nel paese in tempi antichissimi emarginando le etnie che vivevano nella zona, boscimani e twa(…)Tra il XIII e il XIV secolo i campi degli Hutu furono invasi dai Tutsi, cacciatori-allevatori provenienti con le loro mandrie dalle valli etiopiche. La loro netta superiorità militare permise di assoggettare rapidamente sia gli Hutu che i Twa, che divennero vassalli nel regno creato dai tutsi.” Secondo l’articolo della “Repubblica” questa situazione cambierà soltanto con l’arrivo dei colonialisti, in un certo senso descritti come salvatori. I Belgi infatti “eliminarono la schiavitù, ponendo fine alla tradizione che voleva gli Hutu servitori dei Tutsi”.
I concetti di tribù, razza, etnia, ci vengono presentati in un modo tale da celare quella che è la loro vera essenza: questioni storiche e politiche.

Se non si dimentica questo meccanismo perverso, il Rwanda non potrà riprendersi. Se lo perpetriamo attraverso la sua reificazione sulla carta stampata ne diveniamo complici.
La stampa agendo in questo modo può commettere infatti un doppio genocidio.
Quello che mancò nella descrizione dei fatti del Rwanda fu forse l’attribuzione di un senso – indubbiamente difficile da trovare, ma che comunque andava cercato – alle vicende. I giornalisti, specialmente quelli inviati sul luogo, avrebbero dovuto compiere un passo in più, inserire gli avvenimenti in una cornice.
Il pubblico si sarebbe potuto fare un’idea diversa dai watussi e pigmei che si scannano per via di un odio atavico tribale, se qualcuno gli avesse mostrato quei contesti, se qualcuno avesse cercato per loro le diverse responsabilità di una simile tragedia, se qualcuno avesse tentato di documentarsi sul passato coloniale. Al contrario ci si è adagiati su alcuni stereotipi non solo semplicistici ma addirittura erronei e pericolosi.
Il giornalismo che si fece sul Rwanda contribuì inconsapevolmente alle strategie politiche sottese al genocidio e fornì all’opinione pubblica una interpretazione deresponsabilizzante mistificando e deformando i fatti. Tale lettura dei fatti contribuì ad alimentare e reificare le categorie dell’odio etnico, legittimandole come vere senza spiegare quanto siano state invece creazione strumentale dell’indirect rule coloniale.

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