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IL SILENZIO DI 500 BAMBINI

VI episodio de “La lista del console”:

La colonna viaggiava lenta verso il confine. Lo scenario intorno a noi era terribile e impressionante. Dalle rosse colline punteggiate di banani salivano decine di colonne di fumo: erano case che bruciavano, ovunque intorno a noi. Quello che stava accadendo era al di là di ogni immaginazione. Tanto più incomprensibile per il fatto che quella era una regione tradizionalmente ostile a Habyarimana, il presidente ucciso. Al potere erano gli hutu del Nord. Quelli di Butare erano in opposizione al governo tanto quanto i tutsi. Ma ormai in Ruanda governava la follia. Erano bastate poche pattuglie di soldati ben addestrati per organizzare scientificamente la caccia all’uomo.
Le barriere erano numerosissime. Ai posti di blocco trovavamo gente armata nei modi più disparati, dai kalashnikov alle lance, dalle bombe a mano agli archi e ai machete. La situazione era già fuori controllo. Si uccideva per l’odio etnico, certo, sobillati dalla propaganda. Ma anche per interesse personale. Eliminare un tutsi significava anche impossessarsi della sua casa, delle sue capre, degli infissi e delle pentole. Conoscevo i ruandesi da trent’anni, ma non avrei mai immaginato che si sarebbe arrivati a questo.
Si susseguivano le curve, le colline, i barrage. La vastità della strage a cui stavo assistendo mi lasciava attonito. Osservavo quella barbarie pensando che millenni di civilizzazione e di convivenza erano solo un sottile strato di vernice sulla capacità dell’uomo di commettere atrocità, e di godere della sofferenza inflitta. E non era questione di «selvaggi africani». In Bosnia, nella civilissima Europa, in quegli anni stava accadendo la stessa cosa.
Ero costernato a pensare che anche i miei amici erano stati contagiati dallo stesso germe di pazzia: c’era chi, in quei giorni, stava cercando di salvarsi, ma altri erano fra i massacratori. Molti di loro, prima, sedevano allo stesso tavolo del Rotary club di Kigali, e tante volte avevamo cenato e conversato insieme. Ora alcuni davano la caccia agli altri. Uno di loro, il segretario generale del partito Mrnd, oggi è sotto processo per genocidio ad Arusha, presso il Tribunale penale internazionale. Prima del 6 aprile dirigeva la corale della cattedrale di Kigali ed era uno dei cattolici più in vista. Dopo, era diventato uno dei più accaniti organizzatori dei massacri.
Questo stava accadendo in Ruanda. Il presidente del Rotary, ucciso nei primi giorni a Kigali, probabilmente era finito vittima delle squadre organizzate dall’altro rotariano, il direttore della corale della chiesa. Entrambi miei cari amici.
Tutto sommato era meglio non pensare. Era meglio concentrarsi nella guida. Eravamo quasi al confine. Dovevo tornare a mostrarmi sereno e sicuro di me di fronte all’addetto all’immigrazione: dovevo convincerlo a far passare 51 persone, di cui 34 stranieri, tra civili e religiosi, e 17 ruandesi.

“È la festa del 25 aprile, ironia della sorte”, pensavo fra me e me. Già, per noi italiani festa della liberazione. Ero di nuovo in viaggio verso il confine ruandese. Destinazione: Nyanza. Ogni tentativo di entrare in contatto con i padri rogazionisti era stato inutile. Il telefono squillava sempre a vuoto. Cosa avrei trovato alla missione dei rogazionisti?
Era pieno di interahamwe intorno all’orfanotrofio. L’ultima barriera si trovava a non più di cinquanta metri dal cancello d’entrata. Lo varcai, lentamente, scesi e mi guardai intorno. Non avevo mai visto nulla del genere nella mia vita. Fu uno shock tale da segnarmi per sempre. Un nugolo di bambini mi si fecero attorno. Ma nel silenzio più irreale. Mi guardavano, e non dicevano una parola. Lo sguardo vuoto, senza un sorriso, senza fare niente. In tutti gli anni passati in Africa non mi era mai successo. Il bambino africano ti corre addosso, ride e gioca, fa chiasso e ti salta attorno. Sempre. Invece qui la loro coscienza era impregnata del dramma che avevano vissuto in famiglia e che continuava a consumarsi appena fuori dal recinto dell’orfanotrofio.
Il silenzio era completo. E m’è rimasto addosso. Da allora, non posso più guardare un bambino senza cercare di farlo ridere. Quell’immagine mi si è stampata nell’anima: un mare di bambini intorno alla macchina, tanto che riuscivo a malapena ad aprire la porta, ma nel silenzio assoluto. E tutti quei visi mi fissavano, corrucciati e tristi. Quanti erano? Trecento? Quattrocento? Continuavano ad affluire, ogni giorno, singoli e a gruppi. Alcuni venivano condotti là da adulti che li trovavano a vagare da soli nei dintorni di Nyanza. In qualche caso erano stati gli stessi soldati a portarceli, magari dopo aver sterminato il resto della famiglia, perché non avevano avuto il coraggio di uccidere anche i bambini piccoli.
Mi vennero incontro don Vito e padre Eros. Era la prima visita «amica» che ricevevano dal 6 aprile, dopo tre settimane di isolamento.

I due religiosi erano veramente col morale a terra, avviliti e sfiduciati. «I bambini sono troppi», mi disse padre Eros. «Non possiamo tirare avanti a lungo. Non c’è abbastanza da mangiare». Erano convinti che ogni giorno poteva essere l’ultimo. «Quando questa gente alle barriere intorno si renderà conto di quanti tutsi ci sono nell’orfanotrofio, sarà finita per tutti», aggiunse don Vito.
Sapevo che avevano perfettamente ragione. Tuttavia reagii un po’ rudemente. Dissi loro che bisognava prendere subito delle iniziative. «Innanzitutto, troviamo il modo di comunicare: d’ora in poi mettete sempre un bambino vicino al telefono. Lui risponderà in lingua kinyarwanda. Se riconosce l’interlocutore corre a chiamare uno di voi, se no dice che ha sbagliato numero».
Poi suggerii loro di muoversi, di uscire ogni giorno dall’orfanotrofio. Dovevano abituare i miliziani delle barriere alla loro presenza e al fatto che la loro macchina andava e veniva normalmente. Infine, insistetti sul fatto che dovevano avere contatti regolari con le autorità, con l’esercito, con il prefetto.
Andai subito dopo al comando militare e ottenni che di notte fossero piazzati due soldati al cancello, per fare da deterrente a eventuali incursioni notturne degli interahamwe. In ogni caso, arrivando di sera, i due gendarmi non si sarebbero resi conto della popolazione che affollava l’orfanotrofio, né della presenza di tanti bambini tutsi.
Era inspiegabile che non fosse ancora stato attaccato l’orfanotrofio. Penetrare all’interno sarebbe stato facilissimo: non c’era muro di cinta, a parte il lato del cancello. Se qualche gruppo di interahamwe avesse voluto entrare, sarebbe bastato tagliare in qualunque punto la siepe, l’unica protezione che circondava l’ampia superficie della missione.
Eppure non accadde. E nonostante l’afflusso quotidiano di bambini e il loro numero sempre più elevato, l’organizzazione della vita nell’orfanotrofio appariva incredibilmente efficiente. Dalle pulizie delle camerate, alla cucina, al lavaggio delle stoviglie, tutto veniva svolto regolarmente dagli stessi ragazzini, che eseguivano le disposizioni dei più grandi e dei giovani adulti a cui i missionari avevano affidato la responsabilità di gestire le necessità quotidiane. Mi sembrava un miracolo di concordia, una minuscola isola di pace dentro l’infernale bolgia della violenza e della guerra.
Stavo per andarmene quando un piccolo di cinque o sei anni mi prese per mano e volle che lo seguissi. Mi lasciai guidare, incuriosito. Non disse una parola. Mi condusse semplicemente in tutte le stanze dove si trovavano dei bambini ammalati. Poi, sempre per mano, mi riportò alla macchina.
Partii con un nodo alla gola. Da quel momento in poi, la salvezza di quei ragazzini diventò per me una sorta di ossessione. Era necessario portarli fuori dal Paese. Ma era un’impresa quasi impossibile. Come si potevano trasferire 400, forse 500 bambini per decine di chilometri? La loro vita era veramente appesa a un filo.

«Voi che fate? Venite via?». Avevo rintracciato due italiani che si trovavano ancora a Gikongoro, una cittadina a ovest di Butare. Uno dei due era sposato con una donna burundese, originaria di Bujumbura. «Sì, ma non voglio andare in Europa. Devo riportare mia moglie in Burundi». Erano rimasti a sorvegliare il cantiere dell’Astaldi. «Gli interahamwe ci hanno chiesto di dar loro una mano per sotterrare i morti con le scavatrici. Abbiamo risposto che, se volevano, le prendessero pure, le macchine, non potevamo impedirlo, ma che non chiedessero a noi di farlo. Costa, è una cosa schifosa. Sono venuti ad ammazzare i nostri dipendenti tutsi, qui, nel garage».
Ripartii per Bujumbura. Andai a prelevare tre religiose che mi avevano segnalato di portare via al più presto. A Butare, durante una sosta in città, mi capitò di udire un gruppo di miliziani che stava raccontando di una «battuta di caccia» appena terminata. Avevano individuato dei tutsi nascosti, ed erano andati a eliminarli. Raccontavano l’impresa e se ne vantavano.
Ormai si conviveva con la morte di continuo. Si vedevano i cadaveri abbandonati lungo le strade. E accanto a ogni barriera c’era una fossa comune. Anche a don Vito Misuraca era accaduto: uno dei suoi collaboratori era tutsi. Durante la fuga da Kigali, a un posto di blocco lo avevano tirato giù dalla macchina e ammazzato. Davanti a lui e ai suoi trenta bambini. Quale trauma avrà provocato nelle loro menti e nella loro psiche un episodio tanto drammatico?
Ma era né più né meno ciò che succedeva a tutte le ore in tutto il Ruanda, in quei terribili cento giorni.

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