CENTO GIORNI PER RICORDARE

I BAMBINI DI NYANZA

VII episodio de “La lista del console”:

Avevo ormai perso il conto dei miei viaggi. Arrivavo e ripartivo in continuazione. La tragedia sembrava non avere fine, e si moltiplicavano le richieste d’aiuto, le segnalazioni, i tentativi di portare fuori gruppi di persone in pericolo. Eppure non si poteva fare molto: aiutare quei pochi con cui entravi in contatto, aggregare qualcun altro a un convoglio. Gli altri, tutti gli altri, erano abbandonati a se stessi.
Il 3 maggio volli arrivare alla capitale, Kigali, accompagnato da Marziano Bettega, il direttore dell’Astaldi, e da un militare. Lungo il percorso c’erano sempre moltissimi barrage, ma anche tanti sfollati accampati in qualche modo ai bordi della strada. Si erano fatti una capanna con quattro rami e un telo azzurro delle Nazioni Unite. Erano hutu che fuggivano dalla guerra. L’Fpr stava vincendo. Conquistava pezzi di territorio, e aveva preso anche il campo militare di Kanombe, nei pressi dell’aeroporto internazionale.
In quei giorni era in corso un’offensiva verso il quartiere di Nyamirambo. La gente scappava dai bombardamenti. Si accampavano a 30-40 km da Kigali, e aspettavano tempi migliori.
Per entrare in città si doveva attraversare un tratto esposto al tiro dei cannoni: meno di cinquecento metri nei quali si poteva solo accelerare e incrociare le dita. “Anche questa volta è andata bene”, pensai. Guardai il soldato che mi scortava alla mia destra: aveva la paura dipinta sul viso, era più spaventato di me.
Andammo alla gendarmeria e ottenemmo altri quattro soldati di scorta. Ci dividemmo. Bettega andò a prendere le carte e i dischetti del computer che aveva lasciato in ufficio. Io cominciai i miei giri.
Avevo la macchina piena di viveri, per i miei dipendenti. Qualcuno era scappato ma molti erano ancora in città. Volevo andare soprattutto da un mio vecchio dipendente, Alphonse, e dal contabile, Justin, che abitavano proprio a Nyamirambo, uno dei quartieri più decimati dai massacri.
Per arrivarci passai davanti al mio negozio, e vidi che era tutto in ordine. La strada era completamente deserta, ma non c’erano segni di saccheggio. Continuai a svoltare per le strade: vidi il concessionario di automobili, il bar, i negozi, le altre vetrine. Tutto chiuso, ma tutto in ordine. Non c’era stato alcun saccheggio. In giro non c’era anima viva.
Poi sbucai al mercato. Improvvisamente comparvero le barriere. Da quel punto in poi a ogni incrocio c’era un posto di blocco, ogni cento metri. Scorsi un colonnello che conoscevo, e gli chiesi di salire in macchina, per poter procedere più spedito. Mi resi conto che i posti di blocco erano anche una forma di autodifesa e di sorveglianza degli accessi della zona, perché, nel caos totale, oltre alle bande di assassini c’erano in giro anche gruppi di sciacalli e di ladri. Tutti quelli che venivano dall’esterno potevano essere dei potenziali pericoli, così le barriere erano divenute anche una forma di controllo capillare del territorio per evitare saccheggi e aggressioni.
Arrivammo alla casa di Alphonse, che era malato. Lasciammo alla moglie scorte di cibo e soldi. Poi mi spostai da Justin, il contabile. Aveva oltre cinquant’anni, non più di un metro e sessanta, più largo che alto. Un intellettuale, pacifico e tranquillo; da sempre lo conoscevo come una persona aperta al dialogo. Suo padre era stato il primo direttore ruandese di banca a Butare, ed era stato ucciso pochi giorni prima perché era intervenuto a difendere una persona che avevano arrestato a un posto di blocco. Justin era un hutu. Non aveva mai fatto del male a nessuno.
Mi accolse con una bomba a mano e una pistola infilate nella cintola, e il mitragliatore in mano. «Justin», gli dissi, «ma da quando hai imparato a sparare? Cosa fai, ti ha dato di volta il cervello?». Stava preparandosi per fare il suo turno alla barriera. «No», rispose, «bisogna difendersi, perché arrivano da tutte le parti. Non si sa mai chi è amico e chi nemico, perché anche gli hutu che vengono da fuori, se possono rubare, rubano. Bisogna difendersi».
Due soli dipendenti avevano le chiavi del negozio. Justin era uno dei due. «Vorranno prendere la roba in negozio, Justin», aggiunsi. «Fai quello che puoi. Cerca di salvare il più possibile, ma se devi dare dai. Meglio la merce che la pelle». In realtà, era già stato costretto a prelevare della roba dal negozio. Gli diedi un po’ di soldi, ma forse aveva ottenuto qualche pagamento dalla cessione del materiale. «Non preoccuparti», mi disse. «Penso io a distribuire un po’ di denaro e viveri anche agli altri dipendenti. So come raggiungerli». Ma non lo fece, come seppi in seguito.
Justin e la sua famiglia furono trucidati. Accadde molto più tardi, a metà giugno. Anche lui, come tanti altri, scappò quando ci fu la disfatta dell’esercito. Cercò di andare verso il confine dello Zaire, insieme al fiume di profughi che lasciò il Ruanda in quei giorni. A Ruhengeri, nel Nord-ovest del Paese, pare che un gruppo di soldati in rotta avesse intuito, o saputo, che Justin aveva con sé parecchio denaro. Per quel che sono riuscito a sapere, li hanno uccisi per derubarli. Infine passai a casa di Tchali, il mio braccio destro nella società Bandag, l’officina di pneumatici. Era voluto rimanere a Kigali perché, essendo per un quarto indiano e per tre quarti ruandese, non era considerato né hutu né tutsi. «Così», aveva detto, «quando posso, vado a sorvegliare la fabbrica». Ma adesso era in mezzo ai bombardamenti. «Che cosa fa ancora là?», dissi a sua moglie. Lei era tutsi. «Non vuole venire via», mi rispose, «non vuole lasciare il posto. Dice che deve proteggere Bandag».
Lo raggiunsi all’officina: «Dai, Tchali, andiamo». Non rispose. Si caricò in spalla uno zainetto e salì in macchina. Aveva il bagaglio già pronto, ma se non gliel’avessi detto io, non sarebbe venuto via.
Tornai a casa. Lungo la strada, sul marciapiede, ai piedi di un albero vidi un tanica di benzina vuota. Pensai: “Chissà se ce l’ha fatta”. Quella benzina me l’aveva chiesta un ragazzo tutsi che lavorava nella banca Bacar di Kigali. Lo incontrai mentre l’ambasciatore americano organizzava la colonna di macchine dei suoi connazionali per lasciare il Paese, il 9 aprile. Mi si avvicinò e mi disse: «Fammi un favore, portami alla stazione di benzina. Gli americani mi accettano nella colonna, ma non ho abbastanza carburante. Se perdo questa occasione non esco più, le barriere non le supero».
Ero convinto che al distributore non ci sarebbe mai arrivato, non avrebbe superato i barrage. Mi venne un’idea: la casa del padre di Renata, la mia segretaria, era poco lontano. Andai da lui e gli chiesi se aveva un po’ di scorta di benzina. «Tanto non te ne fai più niente. Usciremo tutti in aereo, e quello che lasciamo qui non ha più alcuna importanza. Dammene una tanica», gli dissi. La portai al giovane tutsi. Il bidone vuoto era rimasto là, sotto l’albero.
Quel ragazzo lo rividi tre mesi dopo, quando tutto era finito. Era ritornato a Kigali. «La tua benzina», mi disse, «mi ha portato fino a Bujumbura, con tutta la mia famiglia. Hai salvato cinque persone con venti litri di carburante». Gli diedi solo una pacca sulla spalla. Aveva ragione.
A casa non m’aspettavano. I miei quindici ospiti mi fecero grandi feste. Lasciai loro due valige di beni di prima necessità. Poi mi guardai intorno e mi sentii smarrito. Avevo con me due borse vuote, e un’intera casa da portare via. Era rimasto tutto come lo avevamo lasciato. Non sapevo che fare: fra quelle mura c’erano trent’anni di vita e di ricordi. Finii per infilare nelle borse qualche vestito leggero, che ci serviva a Bujumbura, e pochi piccoli oggetti cui ero particolarmente affezionato. Salutai tutti, mi girai un’ultima volta a osservare quella che era stata la mia casa. E che pensavo di non rivedere mai più.
Bettega si fece trovare nel luogo convenuto. Si doveva ripartire, per arrivare alla frontiera prima del buio. Riportammo i quattro militari alla gendarmeria. Il colonnello Rutaysire mi prese in disparte: «Ho bisogno di far andare a Bujumbura i miei due figli», mi disse. «Posso affidarteli?». «Va bene», risposi, «se ci dai la scorta, non c’è problema». In pochi minuti ci fece trovare pronta una camionetta con dentro i due ragazzi e sopra cinque soldati.
Uscimmo da Kigali, e ci trovammo in quel tratto di poche centinaia di metri esposto al fuoco dell’Fpr. Questa volta non la passammo liscia. Credo che da lontano avessero confuso la bandiera italiana con quella francese, e i francesi li consideravano nemici.
Sentimmo il colpo, lontano, il fischio della bomba che arrivava, il fragore dell’esplosione dietro di noi. Poi un secondo e un terzo. Ricordo solo che pigiai l’acceleratore a tavoletta, e non pensai a niente. Sentivo i lunghi fischi e le esplosioni. Scorsi la gente, ai lati della strada, che si buttava a terra. Io correvo, a più non posso.

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BOLLETTINO DEL GENOCIDIO

Settima settimana: 19 maggio 1994 – 25 maggio 1994

19 maggio: Il commissario per i diritti umani dell’ONU, José Ayala Lasso, produce un rapporto in cui il Ruanda viene definito una tragedia dei diritti umani.

21 maggio: Un convoglio della Croce Rossa Internazionale con aiuti medici raggiunge Kigali.

22 maggio: Il FPR prende l’aeroporto di Kigali e il campo militare di Kanombe, ed estende il proprio controllo sulla parte settentrionale ed orientale del paese. Le forze governative continuano a fuggire a sud di fronte all’avanzata del FPR.

Il Sottosegretario Generale dell’ONU Iqbal Riza e il Consigliere Militare del Segretario Generale, il General-Maggiore J. Maurice Baril, iniziano la loro visita in Ruanda.

23 maggio: Il FPR irrompe nel palazzo presidenziale.

24 maggio: La Commissione ONU per i Diritti Umani tiene un meeting per discutere del Ruanda.

25 maggio: La Commissione ONU per i Diritti Umani nomina René Dégni-Ségui inviato speciale per i diritti umani in Ruanda. Il Ghana, l’Etiopia e il Senegal sottoscrivono un impegno per fornire ciascuno 800 truppe per le necessità dell’ONU in Ruanda. Lo Zimbabwe e la Nigeria sottoscrivono impegni simili poco dopo.

 

 

 

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“LA MORTE NON MI HA VOLUTA”, CAP. IX-XI DI YOLANDE MUKAGASANA

Feriti, ma vivi. Torturati, ma vivi. Umiliati, ma vivi. È in questo stato che ritrovo i miei figli. Tremo vedendoli avanzare verso me, come tre piccoli re magi cenciosi. Ci abbracciamo, piangiamo. Spérancie geme in un angolo della stanza. I suoi singhiozzi mi entrano nella carne come tanti segni della sua debolezza, del suo sentimentalismo senza vigore. Alla fine si alza, scompare nel giardino, lasciandomi alla mia dolorosa intimità di madre circondata dai suoi sfortunati figli.

scarica i capitoli al seguente link: La morte non mi ha voluta cap-9-10-11

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QUANDO UNA DONNA DIVENTA UN CAMPO DI BATTAGLIA

Il Rwanda ha conosciuto cicli di violenza a carattere etnico fin dal 1959 quando i tutsi hanno cominciato ad essere uccisi o forzati a scegliere l’esilio a causa dei miliziani del MDR-PARMEHUTU composto per lo piu’ da elementi estremisti Hutu sostenuti dall’amministrazione coloniale e dalla Chiesa cattolica. Già a quell’epoca le donne costituivano un gruppo particolarmente colpito dalle milizie del partito MDR-PARMEHUTU che aveva da poco preso il potere per mezzo di cio’ che essi chiamavano una rivoluzione sociale ma che in realta’ non era altro che una caccia ai Tutsi.
Mentre erano intenti ad uccidere persone, bruciare case, spogliare dei beni e mangiare le vacche dei Tutsi, essi scandivano slogan che incitavano alla violenza, del tipo: “Inka zabo tuzazirya, abagore n’abakobwa babo tuzabasambanya” (Noi mangeremo le loro vacche, noi violenteremo le loro donne e le loro figlie).
E’ importante notare che le vacche in Rwanda costituivano il simbolo della ricchezza ed innalzavano i loro proprietari ad un rango sociale elevato. Esse erano dunque ragione di fierezza per i loro allevatori e oggetto di invidia per chi non le possedava. Per meglio ferire i Tutsi nel loro amor proprio, si dovevano colpire le loro vacche ed in fine per annientarli definitivamente si dovevano violentare le loro donne e le loro figlie sapendo che lo stupro è il crimine più degradante e più umiliante di cui una donna e la sua famiglia possano essere vittime. La vergogna e l’umiliazione causate dallo stupro vanno al di là della vittima diretta e coinvolgono anche la sua famiglia, in particolare i parenti, il marito ed i suoi figli.

Lo stupro utilizzato come arma del genocidio.

Nell’Aprile del 1994, il popolo ruandese, commettendo il Genocidio dei Tutsi che causò la perdita di un milione di vite in cento giorni, ha scritto la pagina più oscura della sua storia. Nel corso del genocidio, lo stupro è stato utilizzato come una delle armi più terribili e più effcicaci. Per questo la donna Tutsi è stata un vero campo di battaglia a seguito di violenze sistematiche di massa.
I pianificatori del genocidio hanno identificato lo stupro come una strategia infallibile per sterminare i Tutsi, obiettivo totalmente riuscito, poiché le vittime di questi stupri e violenze sessuali sono state in gran parte contaminate dall’HIV/AIDS ed altre violentate in presenza dei loro figli, non hanno potuto sopportare l’umiliazione e si sono suicidate. Essi hanno perciò chiesto alla popolazione Hutu non solo di uccidere tutti i Tutsi ma anche di violentare sistematicamente tutte le donne ed i bambini. Per tale motivo sono state violentate anche donne con più di sessanta anni così come bambini sotto i 10 anni. L’esempio più lampante è quello del tristemente celebre Jean Paul AKAYEZU, allora Sindaco del comune di Taba nella Prefettura di Gitarama (oggi divenuto Distretto di Kamonyi nella Provincia del Sud) il quale diceva ai miliziani INTERAHAMWE (Fazione armata del MRND, partito al potere durante il genocidio) che si trattava per loro dell’unica occasione per andare a letto con una donna Tutsi. Ad essi rivolgeva proposte del tipo: «Voi avete a vostra disposizione delle donne Tutsi, se voi non approfittate dell’occasione, non venitemi più a domandare a che cosa assomigli il loro sesso ». O ancora: «Voi non ignorate quanto queste donne siano fiere ed arroganti, voi sapete come esse vi abbiano sempre disdegnato, punitele andando a letto con loro »
Ricordiamo che Akayesu è stata la prima persona ad essere stata condannata dal Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda «TPIR » per i crimini di stupro e violenze sessuali.
In aggiunta agli stupri, diverse altre forme di violenza sessuale come torture e mutilazioni sessuali sono state perpetrate sulle vittime. L’orrore indicibile ha avuto luogo quando essi hanno obbligato dei giovani a violentare le proprie madri, i padri a violentare le proprie figlie e quando hanno tagliato i clitoridi delle donne. Tagliare il clitoride ad una donna ruandese significa colpire la sua dignità umana e ferirla profondamente nella sua autostima. Non c’è da meravigliarsi che alcune di loro abbiano deciso di porre fine alla loro vita!!!
Tutte queste violenze sono state commesse in publico con la benedizione e la partecipazione di alcuni elementi dell’amministrazione politica, dell’esercito ed anche di leader religiosi.
Questi atti ignobili venivano acompagnati da parole oscene che avevano come fine non solo quello di umiliare e di ferire la vittima, ma anche di colpire tutta la sua famiglia.
Questi atti ignobili hanno avuto conseguenze molto gravi di ordine fisico, psicologico e socio economico. Senza parlare delll’HIV/AIDS, le cui vittime oggi sono per la maggior parte morte.

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TESTIMONIANZE DAL GENOCIDIO/6

Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana

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M. Vestina
33 anni, superstite, Gahembe

V.M. – Ho saputo della morte di Habyarimana solo la mattina del 7 aprile. Ho chiesto a una vicina hutu perché c’erano dei gruppuscoli nel centro del villaggio. Mi ha risposto con aggressività. “Smettila di fare finta. Sai bene che il presidente è stato assassinato.” Ho avuto veramente paura. Per me, era la fine. Ripensando al 1992 mi sono calmata, pensando che avrebbero assassinato solo dei ricchi e degli intellettuali. Un anziano hutu, una volta amico di mio padre, è venuto a prendere me e i bambini, poiché ero vedova. I figli di quel vecchio erano degli Interahamwe. Sua moglie, una Tutsi, fu la prima a cacciarmi. Esageravo la situazione, diceva. Suo marito ha dovuto impormi. Suo figlio, il più pericoloso di tutti, mi ha preso e spinta con un’ascia. Sono caduta sulla schiena. Ho visto l’ascia sollevata sopra di me, pronta a colpire. L’immagine mi terrorizza ancora oggi. È il fratello più piccolo, eppure anche lui miliziano, che mi ha salvato la vita. Mi ha tenuta in ostaggio per tutto il periodo. Mi violentava regolarmente. Gli lasciavo usare il mio corpo, a patto che non uccidesse, i miei figli.
Y.M. – Non hai paura dell’AIDS?
V.M. – L’AIDS? Si, ho paura, ma lo vedo come una fatalità. Recentemente ho notato una macchia sulla mia gamba. Ho pensato subito che era l’AIDS. Ma a che serve preoccuparsi? In ogni caso, se ho l’AIDS, non ho i mezzi per curarmi. Spero solo di non morire prima che i miei figli siano grandi.
Y.M. – Pensi di fare il test?
V.M. – A che serve?
Y.M. – E non gliene vuoi a quest’uomo che ti ha preso con la forza?
V.M. – Certo che gliene voglio. Testimonierò contro di lui. Se mi ha preso in ostaggio, non era per amore. Era il suo modo di uccidermi.

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MUKASARAMBU Béata
25 anni, superstite, Nyamirambo

Béata è mia nipote, ha accompagnato i miei figli fino alla fossa dove sono stati assassinati.
B.M. – Ma zia, come sei ingenua! Tutti gli Hutu del quartiere avevano una sola idea in testa, uccidere. Non salvare. Il giorno dopo la morte dei tuoi figli, la moglie di Camille mi ha detto “c’è un uomo là nella strada e vuole vederti. è un miliziano che forse viene ad ucciderti. Si chiama Bizimungu.” Ma io, volevo solo una cosa: la morte. Pensare di poter morire era per me un piacere. Mi sono precipitata verso il miliziano. Ma ha esitato. “No, ha detto, di sicuro non sei tu la Béata che cerco. Quella che cerco è una Hutu, la sorella di Véné. Senza dubbio non sei tu. Torno a chiedere se sei tu.” È andato via ed è tornato dopo un quarto d’ora. E ha detto “Vieni, andiamo.” Siamo andati e abbiamo preso la direzione della fossa. Camminavo felice. Arrivati vicino alla fossa, Gaspard, il tuo vicino, ha gridato “Bizimungu, portami quella ragazza. Deve entrare nella mia casa.” Bizimungu rispose: “Conosci Ruvubu, il più grande miliziano? È lui che mi ha mandato a prenderla. Se viene a sapere che l’hai presa per te, sarà la guerra tra voi. A te la scelta.” In quel momento ho capito che mi cercavano per violentarmi. Zia, non voglio più continuare. Parleremo del resto più tardi. Lo sai, la mattina stessa, mi avevano messo una granata in bocca per obbligarmi a dire dove ti eri nascosta. Dopo quella granata, sono un po’ matta. A volte credo ancora che stia per esplodere. Mi succede di rimpiangere il fatto che non sia mai esplosa.

 

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Anastasie I.
49 anni, superstite, Gahembe (Bugesera)

A.I. – Sulla collina dove eravamo fuggiti, gli uomini si battevano contro gli assassini e le donne e i bambini raccoglievano dei sassi per aiutarli. Nella mischia, un miliziano mi ha detto: “tu sei come una madre per me, vorrei poterti nascondere ma l’ultimo giorno dei Tutsi è venuto, devono tutti morire”. Mi ha tenuto tre giorni nel suo bananeto perché aveva paura di tenermi in casa; poi mi ha portata in mezzo a dei cadaveri sulla collina della resistenza. Là abbiamo passato la notte, mio figlio ed io. Gli assassini sono venuti, mi hanno colpito e hanno ucciso mio figlio. Uno di loro ha detto: “Questa vecchia ci ha curati tutti, se la uccidiamo, ci porterà male. Lasciamola in mezzo ai morti. morirà di fame; i cani e i nibbi finiranno il lavoro”. Se ne sono andati. Uno degli assassini è tornato: “vieni a casa mia, se mia moglie accetta, ti nascondo”. Sua moglie ha rifiutato, mi ha messa nella boscaglia e mi portava tutti i giorni dei semi di sorgo; poi, quando il FPR è arrivato, mi ha avvisato: “Anastasie, vengo a salutarti, non posso più proteggerti, non ti perdere d’animo e fai attenzione ai fuggiaschi, uccidono sul loro passaggio”.
Y.M. – Hai figli?
A.I. – Sì, tre. Quattro sono morti. La più grande è stata violentata e ha un bambino. Ho veramente molte ferite sul corpo, le mie cicatrici stanno scomparendo ma le ferite del cuore non si cicatrizzeranno mai.
Y.M. – Cosa pensi delle ONG e della Chiesa cattolica?
A.I. – C’è stato del disaccordo tra la Chiesa cattolica e il nostro governo. Quest’ultimo voleva che la Chiesa di Nyamata diventasse un monumento commemorativo del genocidio per lasciarci riposare gli scheletri. Per la Chiesa era un peccato. Sarebbe più grave tenere queste ossa nella chiesa piuttosto che aver lasciato uccidere là degli esseri umani? La Chiesa, non voglio più sentirne parlare … i religiosi bianchi sono stati rimpatriati, i religiosi ruandesi sono stati abbandonati. È successo lo stesso con le ONG.
Oggi, molti assassini si rifugiano nelle sette e fanno finta di avere la fede.

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1 SU 85.000

Mezza pagina di Daniele Scaglione

Commenti, notizie, testimonianze e aneddoti in pillole
raccontate da Daniele Scaglione, capo del dipartimento
campaigning di ActionAid Italy

Un giorno, a genocidio ancora in corso, Romeo Dallaire ricevette una telefonata dagli Stati Uniti. A cercare al telefono il capo dei caschi blu in Rwanda era un funzionario governativo, che gli fece alcune domande.
“Generale, quante persone sono state ammazzate oggi?”
Dallaire abbozzò una risposta, parlando di varie migliaia di vittime.
“E quante nella scorsa settimana?”
Dallaire ipotizzò ancora una risposta, ma quando il funzionario gli chiese quante persone immaginava che sarebbero morte nella settimana a venire, si spazientì.
“Che se ne fa di queste statistiche?”, chiese a sua volta all’interlocutore.
“Veda, generale, il mio governo sta prendendo seriamente in considerazione l’opportunità di intervenire in Rwanda a difesa dei civili”, spiegò il funzionario USA. “Ma come lei certo potrà capire, la nostra è una grande democrazia, e nel prendere decisioni importanti è necessario tenere conto del parere dei nostri cittadini. Ora, secondo un nostro sondaggio – spiegò l’uomo a Dallaire – il cittadino medio degli Stati Uniti considera la morte di un nostro soldato un fatto di gravità equivalente alla morte di 85.000 rwandesi. Come lei capirà, dunque – concluse il funzionario – prima di intervenire dobbiamo avere disposizione tutti i dati possibili”.
Alla fine, gli Stati Uniti d’America non intervennero, né per proprio conto né tramite le Nazioni Unite.

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“PIOVE STASERA”, DI LANCE HENSON

It is raining tonight

it is raining tonight

on the barren plains at wounded knee

on the hogans at big mountain

on the barricades at cornwall island

on the red earth at geronimos grave in

oklahoma

it is raining tonight

on the burnt out buildings in Jenine

tonight it is raining

in the dreams of children in salvador and

nicaragua

and san carlos

in the dreams of mothers in brazil and chile

and pine ridge and wind river

tonight it is raining

the rain is ancient

within the keening wind of winter there is a

prayer

si vi wo ho oh shi win

si vi wo ho oh shi win

we will not be thrown away

 (december 28, 1990 from Winter Man)

 

 

Piove stasera

Questa sera piove

sulle pianure aride di wounded knee

sugli hogan della grande montagna

sulle barricate di cornwall island

sulla terra rossa della tomba di geronimo in

oklahoma

Questa sera piove

sui resti bruciati delle case del chiapas

Piove questa sera

nei sogni dei bambini in salvador e in

nicaragua

e san carlos

nei sogni delle madri in brasile e in cile

e a pine ridge e wind river

questa sera piove

La pioggia è antica

nel vento luttuoso dell’inverno c’è una

preghiera

Si vi wo ho oh shi win

si vi wo ho oh shi win

noi non saremo spazzati via

 

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IL SILENZIO DI 500 BAMBINI

VI episodio de “La lista del console”:

La colonna viaggiava lenta verso il confine. Lo scenario intorno a noi era terribile e impressionante. Dalle rosse colline punteggiate di banani salivano decine di colonne di fumo: erano case che bruciavano, ovunque intorno a noi. Quello che stava accadendo era al di là di ogni immaginazione. Tanto più incomprensibile per il fatto che quella era una regione tradizionalmente ostile a Habyarimana, il presidente ucciso. Al potere erano gli hutu del Nord. Quelli di Butare erano in opposizione al governo tanto quanto i tutsi. Ma ormai in Ruanda governava la follia. Erano bastate poche pattuglie di soldati ben addestrati per organizzare scientificamente la caccia all’uomo.
Le barriere erano numerosissime. Ai posti di blocco trovavamo gente armata nei modi più disparati, dai kalashnikov alle lance, dalle bombe a mano agli archi e ai machete. La situazione era già fuori controllo. Si uccideva per l’odio etnico, certo, sobillati dalla propaganda. Ma anche per interesse personale. Eliminare un tutsi significava anche impossessarsi della sua casa, delle sue capre, degli infissi e delle pentole. Conoscevo i ruandesi da trent’anni, ma non avrei mai immaginato che si sarebbe arrivati a questo.
Si susseguivano le curve, le colline, i barrage. La vastità della strage a cui stavo assistendo mi lasciava attonito. Osservavo quella barbarie pensando che millenni di civilizzazione e di convivenza erano solo un sottile strato di vernice sulla capacità dell’uomo di commettere atrocità, e di godere della sofferenza inflitta. E non era questione di «selvaggi africani». In Bosnia, nella civilissima Europa, in quegli anni stava accadendo la stessa cosa.
Ero costernato a pensare che anche i miei amici erano stati contagiati dallo stesso germe di pazzia: c’era chi, in quei giorni, stava cercando di salvarsi, ma altri erano fra i massacratori. Molti di loro, prima, sedevano allo stesso tavolo del Rotary club di Kigali, e tante volte avevamo cenato e conversato insieme. Ora alcuni davano la caccia agli altri. Uno di loro, il segretario generale del partito Mrnd, oggi è sotto processo per genocidio ad Arusha, presso il Tribunale penale internazionale. Prima del 6 aprile dirigeva la corale della cattedrale di Kigali ed era uno dei cattolici più in vista. Dopo, era diventato uno dei più accaniti organizzatori dei massacri.
Questo stava accadendo in Ruanda. Il presidente del Rotary, ucciso nei primi giorni a Kigali, probabilmente era finito vittima delle squadre organizzate dall’altro rotariano, il direttore della corale della chiesa. Entrambi miei cari amici.
Tutto sommato era meglio non pensare. Era meglio concentrarsi nella guida. Eravamo quasi al confine. Dovevo tornare a mostrarmi sereno e sicuro di me di fronte all’addetto all’immigrazione: dovevo convincerlo a far passare 51 persone, di cui 34 stranieri, tra civili e religiosi, e 17 ruandesi.

“È la festa del 25 aprile, ironia della sorte”, pensavo fra me e me. Già, per noi italiani festa della liberazione. Ero di nuovo in viaggio verso il confine ruandese. Destinazione: Nyanza. Ogni tentativo di entrare in contatto con i padri rogazionisti era stato inutile. Il telefono squillava sempre a vuoto. Cosa avrei trovato alla missione dei rogazionisti?
Era pieno di interahamwe intorno all’orfanotrofio. L’ultima barriera si trovava a non più di cinquanta metri dal cancello d’entrata. Lo varcai, lentamente, scesi e mi guardai intorno. Non avevo mai visto nulla del genere nella mia vita. Fu uno shock tale da segnarmi per sempre. Un nugolo di bambini mi si fecero attorno. Ma nel silenzio più irreale. Mi guardavano, e non dicevano una parola. Lo sguardo vuoto, senza un sorriso, senza fare niente. In tutti gli anni passati in Africa non mi era mai successo. Il bambino africano ti corre addosso, ride e gioca, fa chiasso e ti salta attorno. Sempre. Invece qui la loro coscienza era impregnata del dramma che avevano vissuto in famiglia e che continuava a consumarsi appena fuori dal recinto dell’orfanotrofio.
Il silenzio era completo. E m’è rimasto addosso. Da allora, non posso più guardare un bambino senza cercare di farlo ridere. Quell’immagine mi si è stampata nell’anima: un mare di bambini intorno alla macchina, tanto che riuscivo a malapena ad aprire la porta, ma nel silenzio assoluto. E tutti quei visi mi fissavano, corrucciati e tristi. Quanti erano? Trecento? Quattrocento? Continuavano ad affluire, ogni giorno, singoli e a gruppi. Alcuni venivano condotti là da adulti che li trovavano a vagare da soli nei dintorni di Nyanza. In qualche caso erano stati gli stessi soldati a portarceli, magari dopo aver sterminato il resto della famiglia, perché non avevano avuto il coraggio di uccidere anche i bambini piccoli.
Mi vennero incontro don Vito e padre Eros. Era la prima visita «amica» che ricevevano dal 6 aprile, dopo tre settimane di isolamento.

I due religiosi erano veramente col morale a terra, avviliti e sfiduciati. «I bambini sono troppi», mi disse padre Eros. «Non possiamo tirare avanti a lungo. Non c’è abbastanza da mangiare». Erano convinti che ogni giorno poteva essere l’ultimo. «Quando questa gente alle barriere intorno si renderà conto di quanti tutsi ci sono nell’orfanotrofio, sarà finita per tutti», aggiunse don Vito.
Sapevo che avevano perfettamente ragione. Tuttavia reagii un po’ rudemente. Dissi loro che bisognava prendere subito delle iniziative. «Innanzitutto, troviamo il modo di comunicare: d’ora in poi mettete sempre un bambino vicino al telefono. Lui risponderà in lingua kinyarwanda. Se riconosce l’interlocutore corre a chiamare uno di voi, se no dice che ha sbagliato numero».
Poi suggerii loro di muoversi, di uscire ogni giorno dall’orfanotrofio. Dovevano abituare i miliziani delle barriere alla loro presenza e al fatto che la loro macchina andava e veniva normalmente. Infine, insistetti sul fatto che dovevano avere contatti regolari con le autorità, con l’esercito, con il prefetto.
Andai subito dopo al comando militare e ottenni che di notte fossero piazzati due soldati al cancello, per fare da deterrente a eventuali incursioni notturne degli interahamwe. In ogni caso, arrivando di sera, i due gendarmi non si sarebbero resi conto della popolazione che affollava l’orfanotrofio, né della presenza di tanti bambini tutsi.
Era inspiegabile che non fosse ancora stato attaccato l’orfanotrofio. Penetrare all’interno sarebbe stato facilissimo: non c’era muro di cinta, a parte il lato del cancello. Se qualche gruppo di interahamwe avesse voluto entrare, sarebbe bastato tagliare in qualunque punto la siepe, l’unica protezione che circondava l’ampia superficie della missione.
Eppure non accadde. E nonostante l’afflusso quotidiano di bambini e il loro numero sempre più elevato, l’organizzazione della vita nell’orfanotrofio appariva incredibilmente efficiente. Dalle pulizie delle camerate, alla cucina, al lavaggio delle stoviglie, tutto veniva svolto regolarmente dagli stessi ragazzini, che eseguivano le disposizioni dei più grandi e dei giovani adulti a cui i missionari avevano affidato la responsabilità di gestire le necessità quotidiane. Mi sembrava un miracolo di concordia, una minuscola isola di pace dentro l’infernale bolgia della violenza e della guerra.
Stavo per andarmene quando un piccolo di cinque o sei anni mi prese per mano e volle che lo seguissi. Mi lasciai guidare, incuriosito. Non disse una parola. Mi condusse semplicemente in tutte le stanze dove si trovavano dei bambini ammalati. Poi, sempre per mano, mi riportò alla macchina.
Partii con un nodo alla gola. Da quel momento in poi, la salvezza di quei ragazzini diventò per me una sorta di ossessione. Era necessario portarli fuori dal Paese. Ma era un’impresa quasi impossibile. Come si potevano trasferire 400, forse 500 bambini per decine di chilometri? La loro vita era veramente appesa a un filo.

«Voi che fate? Venite via?». Avevo rintracciato due italiani che si trovavano ancora a Gikongoro, una cittadina a ovest di Butare. Uno dei due era sposato con una donna burundese, originaria di Bujumbura. «Sì, ma non voglio andare in Europa. Devo riportare mia moglie in Burundi». Erano rimasti a sorvegliare il cantiere dell’Astaldi. «Gli interahamwe ci hanno chiesto di dar loro una mano per sotterrare i morti con le scavatrici. Abbiamo risposto che, se volevano, le prendessero pure, le macchine, non potevamo impedirlo, ma che non chiedessero a noi di farlo. Costa, è una cosa schifosa. Sono venuti ad ammazzare i nostri dipendenti tutsi, qui, nel garage».
Ripartii per Bujumbura. Andai a prelevare tre religiose che mi avevano segnalato di portare via al più presto. A Butare, durante una sosta in città, mi capitò di udire un gruppo di miliziani che stava raccontando di una «battuta di caccia» appena terminata. Avevano individuato dei tutsi nascosti, ed erano andati a eliminarli. Raccontavano l’impresa e se ne vantavano.
Ormai si conviveva con la morte di continuo. Si vedevano i cadaveri abbandonati lungo le strade. E accanto a ogni barriera c’era una fossa comune. Anche a don Vito Misuraca era accaduto: uno dei suoi collaboratori era tutsi. Durante la fuga da Kigali, a un posto di blocco lo avevano tirato giù dalla macchina e ammazzato. Davanti a lui e ai suoi trenta bambini. Quale trauma avrà provocato nelle loro menti e nella loro psiche un episodio tanto drammatico?
Ma era né più né meno ciò che succedeva a tutte le ore in tutto il Ruanda, in quei terribili cento giorni.

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BOLLETTINO DEL GENOCIDIO

BOLLETTINO DEL GENOCIDIO
Sesta settimana: 12 maggio 1994 – 18 maggio 1994

13 maggio: Il segretario generale dell’O.N.U. Boutros Boutros-Ghali suggerisce al Consiglio di Sicurezza il piano originale del generale Dallaire di paracadutare 5.500 caschi blu a Kigali.

16 maggio: Il FPR taglia la strada tra Kigali e Gitarama.

17 maggio: Il Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U. vota la risoluzione n. 918 che approva il dispiegamento di 5.500 soldati in Ruanda, ma non ci sono truppe disponibili. La risoluzione prevede anche un embargo sulle armi al Ruanda. Il rappresentante della Francia, Jean-Bernard Mérimée, aveva tentato di ostacolare tale embargo, sostenendo la posizione del rappresentante del GIR, (Governo ad Interim Ruandese) rifugiatosi dal 12 aprile a Gitarama in seguito all’avanzata dell’FPR.
Annuncio al GIR, con messaggio del secondo segretario all’ambasciata del Ruanda al Cairo, della consegna di 35 tonnellate di armi (munizioni e granate) per un ammontare di 765.000 dollari. Tali documenti riportano una transazione conclusasi a Parigi.

Aprile – giugno: Rifornimento delle FAR con armi e munizioni tramite alcuni aerei Boeing 707, i quali atterravano a Goma, nello Zaïre. Secondo fonti del posto le consegne venivano pagate dalla Francia.

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TESTIMONIANZE DAL GENOCIDIO/5

Testimonianze dal genocidio

Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana

untitled-1-copy1                                                                                                                                                                                H. Grégoire, detto Mandela (a causa di 25 anni di prigione),
54 anni, superstite, Nyamata

G.H. – A 18 anni, sono stato arrestato senza motivo il 22 dicembre 1963, in seguito all’attacco dei ribelli tutsi nel Bugesera, dove abitavo. Era domenica. Sono stato trasferito a Kigali negli uffici della polizia. Eravamo circa 850, rinchiusi in alcune stanze così piccole che non potevano nemmeno sdraiarci. Juvénal Habyarimana è arrivato con una lista di ventitré persone. Queste persone sono state torturate tutta la notte e uccise all’alba. Non abbiamo avuto niente da mangiare fino a Natale, solo una volta una specie di fou-fou che assomigliava a una poltiglia, nella quale i militari buttavano la cenere delle loro sigarette e tanto calda da poterla prendere solo nelle nostre scarpe. Il giorno di Natale, siamo stati condotti alla prigione 1930 dove siamo rimasti fino a marzo. Molti sono stati liberati, ma 35, tra cui io, sono stati condannati a morte. Ma Monsignor Perraudin, che era venuto ad amministrarci l’estrema unzione, è intervenuto in nostro favore presso il presidente Kayibanda, il suo migliore amico. Per una volta che Perraudin faceva una buona azione! In marzo 1965, dopo molte procedure di appello tutte senza successo, siamo stati trasferiti alla prigione di Ruhengeri dove sono rimasto fino al 1973, sempre senza sapere perché. Al momento del colpo di stato di Habyarimana, siamo stati trasferiti nella prigione di Gitarama, dove le nostre condizioni di detenzione erano terribili: celle inondate, pagliericci marci. Passavamo notti e giorni interi appollaiati sui nostri lettini di ferro. Un giorno, hanno fatto l’errore di aprire le celle. Ci siamo rivoltati e abbiamo rifiutato di ritornarci. Siamo stati gettati in una cantina. La nostra pena di morte è stata infine tramutata in ergastolo. E nel 1985, siamo stati rimessi in libertà e condannati all’obbligo di soggiorno nel nostro Bugesera natale. Avevo 40 anni, avevo passato tutta la mia gioventù in prigione. E nel 1994, siamo stati il bersaglio del genocidio. Credo di essere il solo sopravvissuto dei 35 che erano con me.
Y.M. – Hai una moglie a casa?
G.H. – Una moglie? Cosa offrirei a una moglie? Quando non si ha avuto gioventù, non si ha felicità da offrire. E poi, far crescere dei bambini sotto la continua minaccia di diventare orfani prima o poi?

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Marc N.
54 anni, guardiano del sito di Ntarama, militare hutu che ha protetto dei Tutsi

M.N. – Dopo la caduta dell’aereo presidenziale, ci sono state delle voci secondo le quali erano stati i Tutsi ad abbatterlo. I miei vicini tutsi si sono rifugiati a casa mia, pensando che avessi un’arma e che avrei potuto proteggerli. Ma io non avevo armi perché mi avevano appena comunicato il mio pensionamento, con il pretesto che avevo rifiutato il genocidio.
Y.M. – Il genocidio era stato pianificato anche all’interno dell’esercito?
M.N. – Certo! Nessun ufficiale dei FAR può dire di non essere stato informato della pianificazione del genocidio.
Y.M. – Non hai avuto paura di proteggere delle persone?
M.N. – Paura? Una fifa nera, sì! Quando hanno attaccato casa mia, ho fatto uscire tutti, erano forse una ventina; ho tenuto solo le donne anziane e i bambini. Davanti ai miliziani ho giurato sotto la foto del presidente che non potevo nascondere dei nemici. È così che tutti quelli che erano a casa mia si sono salvati.
Y.M. – Cosa pensi dell’ONU?
M N. – L’ONU ci ha abbandonati. Ho visto qualcosa di sconcertante tra ottobre e novembre 1994. Dei Caschi blu sono venuti in elicottero a prendere dei teschi al sito di Ntarama. Senza dubbio con l’obiettivo di cancellare le tracce del genocidio. Ho immediatamente informato le autorità locali.

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Claire K.
22 anni, superstite, Kicukiro (Kigali)

Siamo stati spinti con la forza sulla collina di Nyanza dove siamo stati aggrediti per ore, con delle granate prima e poi con dei machete e delle pistole. Ho visto saltare il cervello di una bimba al mio fianco … Ero coperta di ferite e avevo un coltello nella gamba. Facevo la morta mentre i miliziani finivano le persone. Ho sentito la mia sorellina che mi chiamava “Claire, Claire, non mi abbandonare, sono ancora viva”. I miliziani l’hanno portata via, non l’ho mai più rivista. Un assassino si è piegato su di me dicendo: “Penso che questa sia ancora viva. Mi ha calpestata con le sue scarpe chiodate. Un altro l’ha interrotto dicendo: “Imbecille, è così che controlli che siano morti? Guarda …” E all’improvviso ho sentito un grosso peso sulla testa e sono svenuta. Quando mi sono svegliata, un uomo stava in piedi di fianco a me e cercava di riconoscermi”. Mi ha chiesto cosa faceva mio padre. “Mio padre? Lavora al campo militare. – Allora, sei una dei nostri. Ti salverò.” Altre, donne sono state salvate come me; ci hanno riunito e sono stata affidata ad un militare. Squadrandomi, mi ha detto: “Hai l’età di mia figlia. Nonostante tu sia Tutsi, perché‚ si vede, non ho la forza di ucciderti‚ di violentarti. Non voglio il tuo sangue sulle mie mani. Senza dubbio sarai uccisa, ma non da me”. E dicendo queste cose, se ne è andato.
Una donna anziana mi ha dato un perizoma e sono andata a nascondermi in un piccolo chiosco dove c’era un rubinetto pubblico. Quando il FPR è arrivato, un militare ci ha portato dell’acqua calda per lavarci. Due minuti dopo, mentre si girava, è morto sotto i nostri occhi colpito da una pallottola in pieno petto.
Oggi, non ne posso più di incontrare assassini. Ne ho abbastanza di vivere nella paura. Ho voglia di lasciare il Ruanda, questa terra dove gli assassini corrono liberamente.

 

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“SUBITO DOPO MEZZOGIORNO”, DI LANCE HENSON

Just after noon v.a alcohol recovery ward oklahoma city

this day two other indians were brought
in from the county jail
gaunt and without light they walk
unsteadily down the hall
i envision a photograph of 1869
three captive cheyennes wrapped in army
blankets standing near horses at camp
supply oklahoma
wordless and lost in this america that has
destroyed so many
i think of ortiz
and gogisgi
and ask a blessing for their way
we are the true veterans of this land

 
Subito dopo mezzogiorno al reparto di
recupero alcolisti del v.a. Oklahoma City

oggi hanno portato altri due indiani
dal carcere della contea
magri e spenti
camminano incerti per la sala
ho in mente una fotografia del 1869
tre cheyenne prigionieri avvolti nelle coperte dell’esercito in piedi vicino ai cavalli a camp supply in oklahoma
senza parole e perduto in questa america
che ne ha sterminati tanti
penso a ortiz
e a gogisgi
e chiedo una benedizione per la loro vita
noi siamo i veri veterani di questa terra

 

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BUJUMBURA – KIGALI E RITORNO

V episodio de “La lista del console”:

 

Che ne era stato degli italiani che vivevano nei dintorni di Butare? Da quella zona, nel Sud del Ruanda, non erano giunte molte notizie. Trasferitomi a Bujumbura, la capitale del Burundi, non mi sarebbe stato difficile risalire la strada che s’inerpica tra i monti e penetra nella parte meridionale del Ruanda. È un viaggio abbastanza agevole, di tre o quattro ore, su strada asfaltata, nella regione più bella e impervia delle montagne.

A Buja, come tutti chiamano la capitale burundese, abitava mio fratello Arturo che mi aveva offerto ospitalità. Mariann, Matteo e io ci eravamo spostati da lui, Olivier e Caroline erano tornati in Belgio.

Butare, mi dissero, era ancora calma. Il motivo lo capii in seguito. Anche per questo, molte persone fuggite da Kigali si erano dirette da quella parte.

Riguardo ai miei compiti di console, a quel punto sarei potuto starmene a prendere il sole sul lago Tanganyika. Infatti, gli altri colleghi e soprattutto gli ambasciatori, che certamente avevano doveri maggiori dei miei, erano tutti rientrati nei rispettivi Paesi. Alcuni avevano lasciato subito il Ruanda, nei primissimi giorni. Altri erano rimasti solo il tempo necessario a far evacuare con gli aerei o gli elicotteri i propri connazionali. Insomma avrei potuto considerare concluso il mio lavoro.

D’altro canto, come imprenditore, a differenza dei diplomatici, in Ruanda stavo lasciando tutto ciò che avevo realizzato. Avevo quattro ditte a Kigali che stavano andando in malora. Era un valore di qualche milione di dollari. Dovevo salvare il salvabile. È stata questa la prima molla che mi ha spinto ad andare avanti? O è stato un tarlo più profondo? E i bambini? Quanto hanno pesato loro nel mio crescente coinvolgimento? Non ero mai riuscito ad avere notizie dell’orfanotrofio dei rogazionisti di Nyanza. Sapevo che dovevano esserci due padri italiani e circa 150 bambini, di entrambe le etnie. Erano al sicuro? E fino a quando li avrebbero rispettati? Mi arrivavano notizie indirette che altri bambini andavano dai missionari in cerca di protezione. Ma quanti? Dall’inizio della guerra, in soli quindici giorni, sapevo che erano diventati più di 200. I rogazionisti avevano riserve tali da sfamarli tutti?

 «Maggiore, sto andando a Butare. Volevo che ne fosse informato». «Va bene, Costa. Non incontrerà particolari problemi. La situazione per ora è tranquilla». Mi ero fermato al comando burundese di Kayanza, l’ultima cittadina prima della frontiera. L’ufficiale era una brava persona. «La gente», aggiunse, «passa senza difficoltà, i commercianti stanno iniziando ad andare avanti e indietro dal Burundi per approvvigionarsi».

Al confine ruandese c’era un doganiere un po’ rognoso. Era puntiglioso e faceva troppe domande. Mentre stavamo discutendo e sbrigando le formalità, arrivò un commerciante di Butare che conoscevo. Mi raccontò che andava a Bujumbura a comprare qualche rifornimento, e mi offrì la scorta del militare che lo aveva accompagnato fino a quel momento. Questo mi convinse definitivamente a proseguire: avevo qualcuno che poteva aiutarmi nei passaggi alle barriere.

La strada – una quarantina di chilometri – era deserta, la città pure. Non c’erano soldati in circolazione. Andai alla prefettura, poi al comando militare: stranamente anche là non c’era nessuno. In seguito venni a sapere che tutti, sia le autorità civili che militari, erano riuniti alla sede del Mrnd, il partito del defunto presidente Habyarimana. Il suo successore ad interim, Théodore Sindikubwabo, che avevano messo a guidare una sorta di governo di transizione per gestire l’emergenza, stava pronunciando un discorso, che in seguito divenne tristemente famoso. Stava incitando «a finire il lavoro cominciato». «I ruandesi», spiegava, «sono degli agricoltori, quando cominciano a lavorare la terra arrivano fino alla fine del campo e tagliano tutto quello che devono tagliare».

Raggiunsi una missione italiana dei missionari rogazionisti. Vi trovai padre Tiziano Pegoraro. Gli spiegai di far girare la voce che sarei tornato due giorni dopo. Chi voleva uscire dal Paese doveva farsi trovare là.

Sulla via del ritorno, mi resi conto, appena uscito dalla città, che era cambiato qualcosa: ai barrage non c’erano civili ma militari, e facevano molte storie per farmi passare. Erano duri e incattiviti. Capii che quel meeting aveva cambiato radicalmente l’atteggiamento dell’esercito. Girai l’auto e tornai al comando: il colonnello mi concesse un militare di scorta.

La situazione era mutata: il clima era plumbeo, e durante il viaggio sentii diverse sparatorie sulle colline circostanti.

Appena passata la sbarra del confine ruandese, restai di sasso: c’era una scia di macchie di sangue, e delle orme che le avevano calpestate. Le macchie proseguivano fino oltre il ponte che fa da «terra di nessuno» fra Ruanda e Burundi. Quelle chiazze raccontavano una storia chiarissima, accaduta al massimo un paio d’ore prima del mio passaggio: un grosso gruppo di tutsi aveva cercato di forzare la frontiera. Si erano fatti sparare addosso per passare di là. Potevano essere 300, forse 400 persone. Con la forza del numero una buona parte era riuscita a passare il confine. Rimasi a fissare a lungo quelle macchie, mentre piano piano transitavo oltre il ponte.

Era il 19 aprile. Di ritorno da Butare passai alla base di Médecins sans frontières e a quella della Croce Rossa Internazionale. Entrambe le organizzazioni avevano posto i loro quartieri generali a Bujumbura. Riferii della situazione dei loro uomini presenti a Butare. Mi guardarono stupefatti quando dissi che venivo da Butare, consideravano una pazzia andarci. Ma il fatto che fossi potuto tornare senza grossi problemi fece capire anche a loro che era possibile farlo. Insomma, il buon esito di una missione spingeva gli altri a rischiare un po’ di più.

Così, due giorni dopo partimmo insieme, io e i ragazzi di Médecins sans frontières. Loro andarono all’ospedale di Butare, e scoprirono che proprio quella notte una pattuglia di militari era penetrata nell’ospedale e aveva ammazzato alcuni pazienti. Ormai anche nel Sud stava cominciando la mattanza. Dovetti aspettare qualche giorno prima di tentare un’altra spedizione in zona: arrivavano notizie che i massacri erano in corso, ed era divenuto assai pericoloso avventurarsi nella zona.

Decisi che avrei operato così. Mi sarei vestito sempre allo stesso modo per essere riconoscibile: pantaloni scuri, camicia azzurra, giacca grigia. Distribuite nelle tasche – e sempre nello stesso posto – avrei messo banconote da 5000 franchi ruandesi (circa 20 euro), da 1000, da 500 e, infine, da 100 franchi, per essere sempre pronto a estrarre la cifra giusta, senza dover contare i soldi: la mancia dev’essere data nella misura giusta, se dai troppo ti ammazzano per derubarti, se dai troppo poco non passi. Nella borsa avrei avuto costantemente con me alcuni fogli con la carta intestata del consolato d’Italia, e sul fuoristrada ci sarebbero state le immancabili bandiere italiane. Quanto alla durata delle incursioni oltre confine, avrei evitato il più possibile di dormire in Ruanda e di viaggiare col buio. 

C’erano lunghe file: da un lato una quarantina di europei, dall’altra decine di ruandesi e altri africani; gli uni e gli altri cercavano di ottenere il permesso di lasciare il Paese. Alla prefettura di Butare regnava la confusione. Ormai tutti erano terrorizzati dalla piega che prendevano gli avvenimenti. Mi misi in coda, pazientemente, per essere ricevuto dal prefetto.

A un certo punto s’aprì la porta, il prefetto mi fece segno di entrare e richiuse la porta. Non mi conosceva. Spiegai che ero il console italiano e che volevo evacuare i miei connazionali. D’improvviso mi si avvicinò, mi abbracciò e si mise a piangere: «Non mi piace quello che sono costretto a fare», continuava a ripetere. Era un giovane, Sylvain Nsabimana, rientrato da soli due anni dalla Danimarca, dov’era andato a studiare.

Il suo predecessore era un tutsi, si chiamava Habyarimana come il presidente. L’avevano eliminato – lui e tutta la sua famiglia – il giorno stesso del discorso del presidente ad interim Sindikubwabo che aveva cambiato i destini della città. E quel ragazzo si era trovato improvvisamente trasferito dal suo impiego nell’azienda nazionale del caffè a capo della prefettura. Capii perché Butare era rimasta tanto a lungo tranquilla: era merito di quel prefetto tutsi. Finché aveva potuto, aveva calmato gli animi ed evitato i massacri.

Col nuovo prefetto non ebbi mai alcun problema. Mi agevolò in tutti i modi. Ogni volta che andavo da lui con una lista di nomi di persone da portare fuori dal Ruanda, lui autorizzava senza fiatare. Oltre alla sua firma, però, serviva anche quella del comando militare. Ed era una questione più complicata, bisognava sempre promettere qualcosa in cambio.

 Compilammo la lista. La prima. Ci misi tutti gli europei che aspettavano il «via libera». Ma ci aggiunsi anche alcuni zairesi, malgasci, tanzaniani e alcuni ruandesi. Decidemmo di organizzare due colonne diverse di automobili, e di partire per Bujumbura a due ore di distanza gli uni dagli altri, per farci notare meno.

In quel momento venni a sapere due cose: la prima, che don Vito Misuraca, il missionario responsabile dell’orfanotrofio di Kigali di cui non avevo più notizie, era riuscito a uscire dalla città e fra mille difficoltà aveva raggiunto l’orfanotrofio di Nyanza; la seconda, che sia lui che il rogazionista responsabile di Nyanza, padre Eros Borile, avevano deciso di non venire con noi in Burundi. «Inutile che li chiami», mi spiegò padre Tiziano Pegoraro, «non rispondono al telefono. Lo lasciano squillare a vuoto per far credere che all’orfanotrofio non c’è più nessuno». «Stanno bene?», domandai. «Per ora sì. Non hanno avuto alcun problema».

Ma quanto poteva durare? La situazione, nella regione, stava precipitando. Il governo ruandese, proprio perché la zona era sempre rimasta tranquilla, aveva mandato a Butare diverse squadre di militari della Guardia presidenziale, i fedelissimi del regime. Di giorno in giorno, dove arrivavano le pattuglie di soldati iniziavano i massacri. Il meccanismo era sempre lo stesso: coinvolgevano la popolazione in modo che nessuno potesse più proclamarsi innocente. O partecipavi al genocidio, o eri connivente con i tutsi, e quindi da eliminare.

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RWANDA, CONDANNATI I MEDIA

Mezza pagina di Daniele Scaglione
Commenti, notizie, testimonianze e aneddoti in pillole
raccontate da Daniele Scaglione, capo del dipartimento
campaigning di ActionAid Italy

georges-ruggiu

Scarica l’articolo: rwanda-processo-ai-media

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BOLLETTINO DEL GENOCIDIO

Quinta settimana: 5 maggio 1994 – 11 maggio 1994

5 maggio: Lancio della direttiva presidenziale n. 25 sulla politica di peacekeeping che limita il coinvolgimento militare degli U.S.A. nelle operazioni di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e sancisce di fatto il non-intervento degli U.S.A. in Ruanda.

Madeline Albright, rappresentante permanente degli Stati Uniti presso l’ONU, testimonia in un’audizione del Congresso sul finanziamento dei programmi ONU:
“Vorrei solo dirvi che nella questione del Ruanda, a mio avviso il Consiglio di Sicurezza e le Nazioni Unite hanno perso il treno. Adesso siamo di fronte ad una situazione ben oltre ciò che chiunque si sarebbe aspettato. E come ho già detto in precedenza, è successo che eravamo in una situazione in cui pensavamo che una forza delle Nazioni Unite poco numerosa fosse in grado di affrontare le questioni della regione, e poi all’improvviso con l’abbattimento dell’aereo coi due presidenti, si è creata una valanga. E quindi ora è difficile giudicare se quelle specifiche operazioni fossero state impostate correttamente”.

Anthony Lake, Consigliere Nazionale per la Sicurezza, dichiara in una conferenza stampa sulla “Direttiva Presidenziale n. 25″:
“Quando mi sveglio ogni mattina e guardo le notizie e le storie e le immagini in televisione di questi conflitti, voglio lavorare per porre fine a ogni conflitto. Voglio lavorare per salvare tutti i bambini là fuori. E so che il presidente ed il popolo americano fa lo stesso. Pero né noi né la comunità internazionale ha le risorse e il mandato per farlo. Perciò dobbiamo fare delle distinzioni. Dobbiamo porre domande difficili su dove e quando saremmo in grado di intervenire. E la realtà è che spesso non siamo in grado di risolvere i problemi dei popoli, non potremo mai costruire le loro nazioni per loro…”.

A Kampala, il presidente ugandese Museveni accusa il governo ruandese ad interim di genocidio in Ruanda.

6 maggio: Ad un mese esatto dall’inizio del genocidio il commissario per i diritti umani dell’ONU, José Ayala Lasso, dichiara che sta per andare in Ruanda.

11 maggio: Nel corso di una riunione informativa del Dipartimento di Stato americano, viene chiesto a Mike McCurry:
“Questo governo è stato in grado di determinare se gli atti commessi in Ruanda dopo il 6 aprile costituiscono genocidio?”
La sua risposta è: “Non mi risulta siano state raggiunte delle determinazioni legali in merito.”

 

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DANIELE SCAGLIONE: “COSI’ FU PIANIFICATO IL GENOCIDIO”

Il genocidio in Rwanda non è stato un episodio incomprensibile di follia collettiva. E’ stato piuttosto la realizzazione di un piano progettato con cura. Un grande progetto di comunicazione che attraverso un uso strategico dei mezzi di informazione più diffusi ha creato un nemico. E poi ha dato istruzioni puntuali per eliminarlo. Daniele Scaglione, direttore della comunicazione di Action Aid International Italia, ha scritto il libro “Istruzioni per un genocidio. Rwanda: cronache di un massacro evitabile”.

Beppe Grillo intervista Daniele Scaglione

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