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RWANDA 1994, LA GIUSTIZIA CHE NON C’E’

Intervista alla scrittrice Yolande Mukagasana che lancia il suo j’accuse: “Gli assassini sono impuniti mentre l’occidente non ammette le proprie responsabilità”

E’ possibile lasciarsi alle spalle il più efferato dei massacri dell’ultimo cinquantennio? Parole come riconciliazione, perdono, giustizia hanno un loro senso in un contesto di inumane sofferenze e costanti paure? E’ insomma possibile guarire dal genocidio? Domande a cui è difficile rispondere ma a cui sicuramente Yolande Mukagasana, scrittrice del libro “La morte non mi ha voluta” e menzione onorevole Unesco per la Pace, non si vuole sottrarre.
Il punto di vista di Yolande è quello di una sopravvissuta che ha assistito al massacro della sua famiglia e al tentativo di suicidio di un intero popolo. Un punto di vista essenziale che però fatica ad emergere dal calderone delle analisi politiche, storiche, giuridiche e psicoanalitiche che colmano i discorsi sul genocidio del Rwanda. Forse, come suggerisce la stessa Yolande, la riluttanza a voler dare la parola ai testimoni nasconde un profondo senso di colpa delle istituzioni internazionali per quanto avvenuto in quella maledetta primavera del 1994 quando in tre mesi un milione di persone perse la vita.
Una colpa inconfessabile che ha radici storiche e politiche. A partire dall’etinicizzazione delle classi sociali Hutu e Tutsi che cominciarono a combattersi dagli anni ’30 in seguito alla colonizzazione del Belgio. Gli invasori istituirono le carte d’identità etniche e divisero la popolazione locale attraverso la scientifica misurazione degli attributi fisici. Le responsabilità occidentali si protraggono fino al genocidio del 1994 che viene pianificato minuziosamente nell’arco di un cinquantennio da governi appoggiati incondizionatamente dalla Francia. La crisi diplomatica tra Parigi e Kigali sembra oramai senza soluzione considerato il rifiuto dell’Eliseo di riconoscere le proprie responsabilità e quindi di facilitare il corso della giustizia.

Yolande Mukagasana quando si parla di genocidio rwandese si parla anche di concetti quali riconciliazione, perdono, giustizia; in quale relazione sono questi elementi?
Iniziamo dal concetto di perdono che reputo essere un concetto primariamente occidentale e religioso. Io non riesco a concepire questo concetto come prioritario ma, piuttosto, come offensivo. Perché dovrei perdonare e chi dovrei perdonare? Dovrei perdonare un genocidio? Ma in questo modo metterei a repentaglio la vita delle nuove generazioni e mi farei complice dei poteri politici che l’hanno pianificato. Il genocidio non si può e non si deve perdonare in quanto crimine contro l’umanità. Dovrei forse perdonare gli esecutori materiali del genocidio? Ma queste persone, che non odio, non mi chiedono perdono e se me lo chiedono sono interessate ad avere sconti di pena. Infine che diritto ho io di perdonare? Posso sostituirmi a un milione di persone negando così la loro sofferenza? No, purtroppo non si possono riconciliare i vivi e i morti. La questione del perdono dei carnefici non si pone perché, così come è stata posta, è antitetica al concetto di giustizia.

Una giustizia che i rwandesi continuano a chiedere ma che sembra sempre concessa con il contagocce.
La giustizia è del più forte. Il Tribunale Penale Internazionale del Rwanda (Tpir) istituito dall’Onu ad Arusha (Tanzania) non ha mandato di indagare sulla fase pre-genocidio, quella della pianificazione appunto. Insomma alla sbarra ci sono solo gli esecutori e non i mandanti. Non è dunque una sorpresa che i rwandesi, che possono essere ascoltati solo come testimoni e non possono costituirsi parte civile, non amino questa istituzione che in 14 anni ha emesso, tra l’altro, appena trenta condanne. Non posso pensare ai soldi che hanno speso per allestire questo baraccone e alla fame che c’è nel mio paese. Il paradosso è inoltre che è l’Onu stessa che dovrebbe fare un mea culpa sedendosi al banco degli imputati.
Ma non è poi così paradossale se consideriamo che l’incarico di ristabilire l’ordine nel 1994 fu dato alla Francia che ha sempre appoggiato i governi genocidiari Hutu. In quell’occasione i militari transalpini protessero la fuga degli assassini verso i campi del Congo. Non è una sorpresa allora che tutt’oggi il paese che nasconde il maggior numero di genocidiari sia, ancora una volta, la Francia.
Anche la Chiesa cattolica ha le sue responsabilità così come riconosciuto da Papa Giovanni Paolo II visto che molti preti e missionari aiutarono gli estremisti Hutu. Insomma buona parte dell’occidente dovrebbe riflettere profondamente su quanto avvenuto in Rwanda. Ma ancora una volta il mio paese è abbandonato a se stesso come se il genocidio non fosse un crimine contro l’intera umanità. Basti pensare che quando c’è stata una proposta per un fondo di risarcimento delle vittime l’Unione Europea ha bloccato tutto dichiarandosi contraria.

Il governo rwandese ha impostato la sua politica sul concetto di riconciliazione nazionale. Su quali base poggia, dunque, se vengono a mancare sia la giustizia sia il perdono?
Siamo infatti all’interno di un circolo vizioso che definisco in questi termini: non c’è umanità senza perdono, non c’è perdono senza giustizia, non c’è giustizia senza umanità. E’ vero, non c’è giustizia per il genocidio del Rwanda ma è proprio la giustizia ad essere prioritaria. Il perdono si può concedere agli Hutu che non hanno ucciso e che sono pronti a rivedere le loro posizioni razziste. Per i carnefici non c’è altra strada che il giudizio.
Quando avevo 5 anni ricordo delle persone irrompere nella nostra casa armate e con il volto coperto da foglie di banane. Chiesero a mia madre dove era mio padre ma lei non rispose. Allora mi presero e mi trafissero una coscia con una lancia. Mia madre non fiatò e quelli se ne andarono mentre io urlavo dal dolore. Li riconobbi perché giocavo sempre con i loro bambini: erano i nostri vicini.
A seguito dei tanti episodi di violenza e dei massacri avvenuti nell’arco di un cinquantennio le parole d’ordine sono state sempre perdono e riconciliazione. Il risultato è stato il genocidio del 1994, la soluzione finale per i Tutsi rwandesi. Perdono e riconciliazione non possono esserci senza giustizia. Dobbiamo guardare al genocidio non solo dal punto di vista religioso e politico ma anche da quello umano.

Il Rwanda sembra,a questo punto, aver deciso di voler far da sé lanciando l’esperimento dei Gacaca, i tribunali tradizionali rwandesi applicati ai crimini di genocidio.
Un esperimento dovuto a mancanza di alternative. Secondo i tempi della giustizia ordinaria ci sarebbe voluto oltre un secolo per giudicare tutti gli imputati. La giustizia dei Gacaca è riparatrice e non punitiva. L’obiettivo è la riabilitazione perché nella cultura rwandese non si può negare la libertà a un uomo. Purtroppo ci sono molti limiti a partire dai rischi che corrono i testimoni. Pochi giorni fa ho ricevuto un messaggio da Kigali. Un mio amico, in seguito a una testimonianza, ha subito un attentato e ora è in coma. E’ una pratica comune in Rwanda. L’ideologia genocidiaria è ancora presente. E vi rimarrà finché non avremo giustizia.

Intervista a cura di Manlio Masucci-Bene Rwanda Onlus

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