Archive for giugno 11th, 2009

BOLLETTINO DEL GENOCIDIO

Decima settimana: 9 giugno 1994 –  15 giugno 1994

 10 giugno: La ritirata delle FAR di fronte all’avanzata del FPR persuade alcuni membri del governo ad interim di lasciare Gitarama per Gisenyi.

 11 giugno: L’inviato speciale della Commissione ONU per i Diritti Umani René Dégni-Ségui inizia una missione sul campo di una settimana in Ruanda per investigare sulla violazione dei diritti umani.

Alain Juppé, ministro degli Esteri francese, dichiara che la comunità internazionale dovrà intraprendere nuove iniziative se in Ruanda continueranno combattimenti e atrocità.

 13 giugno: Il FPR conquista Gitarama. Il governo genocidario si trasferisce definitivamente a Gisenyi, alla frontiera con lo Zaire, (oggi Repubblica Democratica del Congo).

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TESTIMONIANZE DAL GENOCIDIO/8

Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana

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 MVUGAYABAGABO
16 anni, figlio di un autore del genocidio, Mwurire

Y.M. – Nessuno querela tuo padre?
M. – No. Ma dicono che ha picchiato qualcuno. E che a causa dei colpi, la vittima si è ammalata di tubercolosi.
Y.M. – Ed era durante il genocidio?
M. – Si.
Y.M. – Conosci questa persona?
M. – Si. Si chiama Butare.
Y.M. – È morto o è ancora vivo?
M. – Non è morto. È diventato militare del FPR.
Y.M. – È vero che è ammalato di tubercolosi?
M. – No.
Y.M. – È diventato militare durante il genocidio?
M. – No. Dopo. Un anno fa, credo.
Y.M. – Era un vostro vicino?
M. – No. Noi abitavamo in cima alla collina. Lui, abitava sotto.
Y.M. – Era un Hutu o un Tutsi, Butare ?
M – Tutsi.
Y.M. – Forse hanno semplicemente fatto a botte durante il genocidio?
M. – No. Nemmeno. Quando papà era ancora vivo, mi ha detto di averlo incontrato e di avergli indicato un buon sentiero per evitare gli assassini.
Y.M. – Quindi ha mentito dicendo che tuo padre l’aveva picchiato?
M. – Si. Sono sicuro che papà non ha mai picchiato nessuno.
Y.M. – Di che cosa e morto tuo padre?
M. – Di malattia, qualche mese fa.

Mi giro verso Gasana, il guardiano del luogo: “Suo padre era un autore dei genocidio?” Gasana mi guarda con un sorriso malizioso.
Dopo il colloquio con il ragazzo, Gasana mi spiega che non ha voluto ferire quel ragazzo innocente, ma che suo padre era un artefice del genocidio e non uno dei minori.

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Marie-Josée N.
31 anni, vedova di un Tutsi, sito di Murambi (Gikongoro)

M.-J.N. – Mio marito era Tutsi ed io sono Hutu. Era ingegnere. Lo supplicavo spesso di lasciare il paese, ma non voleva, aveva fiducia nella Comunità internazionale. Fiducia inutile. È stato ucciso mentre scappava nella foresta di Karama e il mio bambino ha avuto il collo tagliato per metà ed è diventato emiplegico. Inoltre oggi soffre di disturbi legati ad un trauma psicologico. La notte, gli capita di girarsi nel suo letto e di urlare: “Vengono ad uccidermi, vengono ad uccidermi!”. Non ho soldi per portarlo dal medico.
Y.M. – Che lavoro fai?
M.-J.N. – Lavoro ad un monumento commemorativo del genocidio e guadagno mille franchi al mese (5.000 lire). Lavo gli scheletri, tolgo le ragnatele. All’inizio, gli Hutu mi dicevano “Sei nostra sorella, smetti di occuparti di questi ossami, ti porteranno sfortuna. Non ti vergogni di occuparti ancora dei Tutsi?”. Ma dopo che ho sposato il fratello di mio marito, sono loro che si vergognano. Non osano più apostrofarmi a questo proposito.
Y.M. – Cosa fa tuo marito?
M.-J.N. – È un militare di basso rango.
Y.M. – Come si chiama tuo figlio?
M.-J.N. – Welcome Norbert. Ha sette anni.
Y.M. – Welcome? Che nome buffo.
Marie-Josée non risponde, sorride, pensierosa.

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NIYONSABA Cassius
10 anni, superstite, Ntarama

Y.M. – Avevi cinque anni durante il genocidio. Ti ricordi? Cosa è successo? Dove abitavate?
Cassius – Ntarama.
Y.M. – Eri con i tuoi genitori?
Cassius – Si.
Y.M. – Come sono stati uccisi?
Cassius – Gli assassini sono entrati in parecchi nella chiesa dove ci eravamo rifugiati con centinaia di altre persone. C’erano degli uomini, delle donne, degli anziani e dei bambini. Urlavano, come se fossero ubriachi. Hanno colpito con dei manganelli. Noi svenivamo e i bambini ci finivano con il machete.
Y.M. – C’erano bambini della tua stessa età che uccidevano?
Cassius – Si. E anche più giovani. I genitori insegnavano loro ad uccidere gli anziani. Hanno tagliato le braccia e le gambe di mamma. Mi ha urlato di correre fuori perché lei stava per morire e non avrebbe potuto più proteggermi.
Y.M. – È un bambino che ti ha dato questo colpo di machete sulla testa?
Cassius – Non so …
Y.M. – Non hai mai dei problemi in seguito a questo colpo sulla testa?
Cassius – Si. Quando gioco molto al calcio, la notte muoio.
Y.M. – Bisogna farti curare. Chi può aiutarti?
Cassius – Mia cugina, la cui madre mi ha raccolto, ha appena finito i suoi studi di lettere classiche. Quando avrà un lavoro, mi fará curare.

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PER JEANETTA

di Lance Henson

Vicino al fiume arkansas dall’altra parte di
tulsa
una donna delaware si sistema sui ciottoli
per sedersi
accanto a un albero spoglio
tra le ragnatele argentate
siede in una cupa imperscrutabile preghiera
dopo un lungo momento stende le braccia
verso il fiume
nessuno può conoscere questo breve
istante e la
sua bellissima tristezza meglio di lei

For Jeanetta

Near the arkansas river across from tulsa
a delaware woman climbs small boulders to
sit
near a ragged tree
among silver spider webs
she sits in somber unsoundable prayer
after a long while she raises her arms
toward
the river
no one can know this small moment and its
beautiful
sadness better than her

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LE ORE PIU’ DRAMMATICHE

IX episodio de “La lista del console”:

 

Sunier Claude André, Sunier Kabengera Alphonsine, Sunier Patrick, Sunier Pascal, Sunier Louis-Adrien. Due adulti e tre bambini. Lessi i nomi e guardai il diplomatico svizzero. «Va bene, cancelliere, ci proverò», dissi. «Perché non sono scappati prima?». «Non lo so, signor Costa. Ma la moglie è una tutsi, per loro si sta mettendo male».

Partii per evacuare la famiglia Sunier. Avevo con me un lasciapassare dell’ambasciata svizzera, che in quella situazione non era un granché. La guerra infuriava, più violenta che mai. La capitale non era ancora al collasso, ma poco ci mancava. Il Fronte patriottico guadagnava terreno, anche se non era ancora riuscito a vincere la resistenza dell’esercito governativo.

Kigali è proprio al centro del Paese, e l’Fpr stava tentando una manovra a tenaglia, guadagnava terreno sia a Nord che a Sud. Era la tecnica più usata dal comandante, Paul Kagame: stringeva i nemici dentro una specie di “U”, ma senza mai circondarli. Non li chiudeva in una sacca, lasciava sempre una via di fuga. Forse intendeva fare così pure per conquistare la capitale. Se l’intenzione era questa, ci si doveva presto aspettare un attacco in direzione di Nyanza e Butare. Ma dove esattamente avrebbero lanciato l’offensiva? Quanto tempo avevamo ancora per portare in salvo le centinaia di bambini di Nyanza e di Butare?

D’altra parte, più sentivano aria di sconfitta, più gli interahamwe e i soldati diventavano nervosi e intrattabili. Mi rendevo conto che i rischi aumentavano, di giorno in giorno.

La linea del fronte, d’altro canto, era ancora abbastanza lontana, quell’8 maggio. E quindi andai alla ricerca di questa famiglia Sunier. Forse sarebbe stata un’altra occasione per formare un piccolo convoglio. Alexis Briquet venne con me.

Arrivammo dalla famiglia svizzera, che abitava in una bella casa alla periferia di Butare. Mi resi subito conto che avrei avuto più problemi con lui, Claude, che con i barrage. Il signor Sunier aveva subito cominciato a lamentarsi del fatto che eravamo arrivati tardi. Era pieno di pretese, e considerava tutto dovuto. La moglie, invece, era assai più ragionevole, sveglia e capace di gestire la situazione. Aveva capito subito che era un’occasione unica per salvarsi con i bambini.

C’era poi un’ulteriore complicazione: in casa trovammo non solo la sua famiglia, ma anche tutti i parenti della moglie, una quindicina di persone. Claude voleva portarli con sé. Tentai di spiegargli che non era la stessa cosa muoversi in cinque o in venti persone. Non avevamo i lasciapassare, né le autorizzazioni. L’ambasciata svizzera ci aveva consegnato delle carte d’identità consolari sulle quali appiccicare le foto. Ma erano cinque, per i membri della famiglia. Sunier, intanto, protestava perché non volevamo portare via tutti i bagagli. Sembrava intenzionato a traslocare la casa.

Persi la pazienza in fretta: «Caro Sunier», gli urlai, «solo gli imbecilli rimangono in situazioni simili, è da un mese che dovresti essere uscito e invece sei ancora qui». «Ma l’ambasciata non mi ha detto niente, io attendevo direttive», mi rispose. «Solo gli imbecilli aspettano gli ordini dell’ambasciata». Ero veramente infuriato, anche perché venni a sapere in quell’occasione che cominciavano a circolare i “mercenari del salvataggio”, cioè alcuni personaggi burundesi che in cambio di 10.000 dollari garantivano l’uscita dal Ruanda. Uno di questi sciacalli aveva fatto la proposta anche alla famiglia svizzera.

Trovammo il modo di mettere al sicuro i familiari della moglie: erano quasi tutti minorenni. Ai due adulti che erano con loro demmo indicazioni per passare il confine attraverso la foresta. Bambini e ragazzi li portammo al centro della Croce Rossa di Butare, lo stesso dov’erano raccolti i bambini recuperati da Alexis.

Il centro rischiava il collasso. I minori erano ormai 700, un numero veramente ingestibile. E continuavano ad affluire. Quanto alla sicurezza, sapevamo benissimo che era piuttosto labile. Chi assicurava la protezione, ossia i soldati, erano gli stessi che andavano in giro a fare i massacri.

 Tornato a Bujumbura, mi fermai giusto il tempo di riposarmi un po’ dalle fatiche. Continuavo a dormire e a mangiare poco. E mi accorgevo che la cintola dei pantaloni cominciava a essere larga.

Purtroppo, da Nyanza arrivavano brutte notizie: il fronte si avvicinava e padre Eros Borile non stava per niente bene.

Decisi di ripartire, il 12 maggio, con la macchina carica di viveri e medicinali. Fortunatamente, esibendo il tesserino diplomatico, nessuno – almeno fino a quel momento – aveva osato farmi aprire il bagagliaio e perquisire il carico.

A pochi metri dal cancello della missione rogazionista c’era l’ultimo posto di blocco. Ho un ricordo nitido del capo dei miliziani: mi aveva colpito il fatto che fosse un vecchio, magro e abbastanza alto. Avrà avuto non più di sessant’anni, che però spesso in Ruanda ne valgono ottanta. Faceva fatica ad alzarsi dalla sedia, si muoveva lentamente. Quando arrivavo, mi riconosceva subito e mi veniva incontro: «Ah, sei ancora tu», diceva. Era vestito sempre allo stesso modo, pantaloni cachi e pullover rosso. Non era armato, le armi le avevano gli altri intorno a lui. Sembrava assolutamente convinto di compiere un’opera meritoria, cercando di “beccare” qualche tutsi in fuga: «Sai», diceva, «dobbiamo stare attenti. I tutsi sono dappertutto». Me lo ripeteva ogni volta.

Padre Eros stava proprio male. «Ho sempre bruciori allo stomaco, e vomito in continuazione», mi spiegò. «Non capisco, forse è la tensione». Eros, che già era esile di costituzione, era divenuto ancor più magro, pallidissimo. Sembrava non reggersi in piedi.

Ripresi la strada del ritorno col pensiero fisso a Nyanza. Non vedevo vie d’uscita. Anche avessi portato il missionario a Butare, non c’era nessuno che potesse curarlo. La soluzione si materializzò lungo la strada: incrociai un camion della Croce Rossa Internazionale. Segnalai il problema al responsabile, un giovane franco-libanese. Lui entrò subito in contatto radio con la loro base di Kabgayi. Dall’ospedale da campo che avevano in città partì subito un medico per Nyanza.

In poche ore individuò il problema: padre Eros aveva una stranissima malaria, che si era manifestata con sintomi atipici. Lo misero sotto flebo per quattro giorni, e con un’altra settimana d’ospedale lo riportarono a Nyanza in discrete condizioni.

Ovviamente era molto debole. S’imponevano decisioni rapide. In quelle condizioni padre Eros e don Vito non avrebbero retto a lungo nel gestire i 500 e più bambini dell’orfanotrofio.

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